Il seme è piantato
La zona in cui lo
Swami si era appena trasferito non era trascurata come la vicina Bowery, sebbene
non si potesse certamente definire normale.
Proprio di fronte al suo negozietto, una fila di pietre tombali faceva capolino
dalla vetrina scarsamente illuminata della bottega "Lapidi F.lli Weitzner e
Papper".
Più in là c'era la tavola calda "da Sam". Vicino a "da Sam" c'era un vecchio
edificio a quattro piani con la scritta A.I.R., poi il Ben J. Horowitz Monuments
(altre pietre tombali) e poi le Pompe Funebri Schwartz.
Nell'isolato seguente, al numero 43, un riparo di tela consunta si protendeva
sul marciapiede per annunciare: "Pompe Funebri Provenzano Lanza". Poi c'era la
Cosmo Pacchi (importatori) e qualche isolato più avanti, verso il centro, la
vistosa insegna bianca e nera del Village East Theatre.
Un isolato più in su, ma sullo stesso lato della strada su cui si trovava il
negozietto, c'era la Chiesa della Natività, un vecchio edificio a tre piani
sovrastato da una croce blu e oro dipinta di fresco.
Il palazzo a tre piani del 26 sulla Seconda Avenue, con la facciata ricoperta
dalle scale di sicurezza di un colore verdastro, si aggrappava contro i massicci
nove piani del Magazzino Knickerbocker.
La Seconda Avenue era un'arteria di grande traffico che portava al lato est di
Manhattan, e il semaforo all’incrocio tra Huston e la Seconda Avenue pompava un
flusso costante di furgoni per le consegne, taxi e auto private che passavano
davanti alla porta di Bhaktivedanta Swami.
Dalle prime ore del mattino fino a notte era tutto uno sfrecciare di auto,
seguito dallo stridore dei freni, la tensione competitiva dell'attesa, paraurti
contro paraurti, il rumore prepotente dei clacson, poi il grattare della
frizione di qualche auto, i motori che rombavano e salivano di giri, e di nuovo
lo sfrecciare delle auto. Il traffico era tanto intenso da costituire un vero
disturbo.
Al 26 della Seconda Avenue c'erano in realtà due negozi. Quello a nord era una
lavanderia a gettone, e quello a sud era stato un negozio di articoli da regalo,
ma poi era stato abbandonato.
Entrambi avevano un'entrata un po' stretta, un'ampia vetrina ed erano verniciati
di un colore indefinibile.
Sotto l'insegna "Doni impareggiabili" c'era una vetrina di circa cinque metri
quadrati che fino a qualche settimana prima aveva esposto scatolette di
fiammiferi decorate con foto di stelle del cinema degli anni 30 e 40.
L'insegna "Doni impareggiabili" era l'unico ricordo che restava del negozio di
articoli da regalo d'ispirazione nostalgica che si era trasferito recentemente.
Sotto la vetrina del negozio, una coppia di porte di ferro sul marciapiede
nascondeva alcuni gradini di pietra che portavano alla cantina e alla stanza
della caldaia.
L'ampio marciapiede era stato steso in diverse sezioni di varia forma e misura,
in momenti diversi del passato.
In alcuni punti si erano prodotte spaccature o depressioni, dove si raccoglieva
una fine polvere che brillava di frammenti di vetri rotti.
Una pompa antincendio, di un nero polveroso, stava sulla curva. A metà tra le
porte dei due negozi c'era l'entrata principale al numero 26.
Questa porta dava su un androne con file di cassette della posta e citofoni, e
una porta chiusa a chiave, dietro la quale c'era l'ingresso e le scale, e
dall'altra parte il cortiletto.
Sulla sinistra della vetrina del negozietto di articoli da regalo c'era
l'entrata, un telaio di legno scuro con un lungo pannello di vetro.
La porta si apriva sul locale lungo e stretto, che adesso era completamente
spoglio. All'interno, a destra della porta, c'era un rialzo dietro la vetrina,
proprio all'altezza giusta per sedersi.
Sul fondo della stanza nuda e tetra, due finestre di vetro smerigliato protette
da sbarre di ferro davano sul cortile.
A sinistra della finestra di sinistra c'era un piccolo lavabo, fissato
all'esterno di un minuscolo gabinetto, con la porta di fronte all'entrata del
negozio. Una porta sul lato sinistro del muro portava a un corridoio che dava
sul cortile.
Il cortile era pavimentato da piastrelle di cemento di forma geometrica e
circondato da aiuole di cespugli e alberi alti.
C'era un tavolo da giardino, una piccola fontana di cemento e una voliera in
cima a un palo, e circa nel mezzo del cortile c'erano due aiuole di cespugli.
A nord e a sud si alzava il muro di cinta, e sugli altri due lati il cortile era
delimitato dai due edifici. Il fazzoletto di cielo sopra la testa dava un senso
di sollievo.
Affacciato sul cortile, nell'edificio retrostante al 26 della Seconda Avenue, al
secondo piano c'era l'appartamento di Bhaktivedanta Swami dove ora egli viveva,
lavorava e adorava Krishna.
Con l'aiuto dei suoi amici della Bowery aveva pulito e sistemato la sua nuova
casa. La stanza retrostante era il suo ufficio. Lì aveva appoggiato al muro un
sottile cuscino ricoperto di una stoffa stampata col disegno di un elefante, e
davanti al cuscino aveva sistemato la sua valigia di metallo non verniciato che
fungeva da tavolino.
Sul tavolino aveva messo la macchina da scrivere, e ai lati i suoi libri e la
carta. Questa era la sua zona di lavoro.
I suoi manoscritti avvolti in stoffa color zafferano, la pila di volumi dello
Srimad Bhagavatam e i pochi effetti personali erano chiusi in un armadietto
dalla parte opposta del tavolino.
Sopra il sedile aveva attaccato al muro una stampa di Sri Krishna, presa da un
calendario indiano. (Sri Krishna è ritratto come un ragazzo che suona il flauto,
con una mucca dietro di Lui. Sri Krishna è in piedi sul pianeta Terra, che
s'incurva come la cima di una piccola collina sotto i Suoi piedi di loto.)
Sulla parete verso est si aprivano due finestre, e le chiazze di sole del
mattino, che filtrava attraverso i gradini della scala di sicurezza, si
allungavano sul pavimento.
L'altra stanza era spoglia, c'era solo un tavolino basso che diventò l'altare di
Bhaktivedanta Swami. Lì aveva messo un quadro incorniciato di Sri Caitanya con i
Suoi compagni.
Sul muro c'era un calendario indiano con l'immagine di Sri Visnu a quattro
braccia, e Ananta Sesa, il serpente celeste. E come aveva fatto nella Bowery,
tirò un filo per stendere la biancheria.
Le due stanze erano dipinte di fresco e il pavimento in parquet di legno
resistente era pulito. La stanza da bagno era pulita e comoda, come la piccola
cucina ammobiliata.
Talvolta Bhaktivedanta Swami rimaneva alla finestra della cucina a guardare
oltre il muro del cortile. Si era trasferito qui senza sapere nemmeno come
pagare l'affitto del mese successive.
Qualche anno prima dell'arrivo di Bhaktivedanta Swami, nel Lower East Side era
apparso un nuovo tipo di abitatore dei bassifondi.
Il fenomeno era stato più volte analizzato dal punto di vista sociologico e
culturale, ma nessuno è mai riuscito a spiegare veramente come siano arrivati,
così all'improvviso, come un grande stormo di uccelli che cala dal cielo, o come
animali in una grande migrazione istintiva, e perché dopo soltanto qualche anno
siano svaniti nel nulla.
Dapprima i nuovi arrivati erano per lo più giovani artisti, musicisti e
intellettuali, simili alla folla hippy che abitava accanto a Prabhupada nella
Bowery. Poi vennero i ragazzi della media borghesia scappati di casa.
Qui c'era più spazio per vivere e gli affitti erano meno cari che nel vicino
Greenwich Village, perciò si concentrarono qui nel Lower East Side, che nel
gergo degli agenti immobiliari divenne famoso come East Village.
Molti tra i nuovi arrivati non riuscivano nemmeno a trovare un posto dove andare
ad abitare, e si accampavano nell'ingresso dei palazzi.
Attratti dagli affitti a buon mercato e dalla promessa di una libertà da Bohème,
questi ragazzi borghesi fuggiti da casa, l'avanguardia di un movimento giovanile
di proporzioni nazionali che sarebbero diventati famosi come hippy, vagavano per
i bassifondi del Lower East Side come una protesta vivente contro la "bella
vita" del materialismo americano.
Come rispondendo a un richiamo istintivo, i ragazzi più giovani si univano agli
hippy più anziani, e dietro ai ragazzi fuggiaschi arrivava la polizia, gli
assistenti sociali, i consulenti psichiatrici, gli ostelli per la gioventù e i
consultori contro la droga.
A Saint Mark esplose un nuovo commercialismo hippy, con negozi di poster, negozi
di stranezze, di dischi, gallerie d'arte e negozi di libri che vendevano di
tutto, dalle cartine per fare sigarette ai vestiti, alle luci psichedeliche.
Gli hippy si mossero verso il Lower East Side perfettamente convinti che quello
era il Posto "giusto", proprio come avevano fatto gli immigrati che li avevano
preceduti.
Per gli immigrati europei di un'altra epoca, il porto di New York era apparso
come il cancello d'ingresso di una terra di ricchezze e di opportunità, quando
finalmente posavano lo sguardo sull'orizzonte di Manhattan e sulla Statua della
Libertà.
Adesso, nel 1966, la gioventù americana si riversava a New York City portando
con sé le proprie speranze ed esultava alla vista della nuova terra promessa del
misticismo, i bassifondi del Lower East Side.
Era una coesistenza difficile, gli hippy da una parte, e dall'altra Portoricani,
Polacchi e Ucraini. I gruppi etnici che si erano già stabiliti provavano un
certo risentimento verso i nuovi venuti, che non erano veramente costretti a
vivere lì, come loro.
In realtà, molti dei giovani appena arrivati discendevano da famiglie di
immigrati che avevano lottato per generazioni per farsi un posto nella borghesia
americana. Eppure, la migrazione della gioventù nel Lower East Side non era meno
reale dell'immigrazione dei Portoricani, Polacchi o Ucraini, sebbene fossero
ovviamente spinti da motivazioni differenti.
Gli hippy avevano rifiutato il materialismo di provincia dei loro genitori, la
felicità ebete della TV e della pubblicità, le mete effimere e inconsistenti
della borghesia americana.
Erano delusi e non credevano più in genitori, insegnanti, preti, capi politici,
e nei mass media, erano insoddisfatti della politica americana nel Vietnam e
attratti da ideologie politiche radicali che dipingevano l'America come un
gigante crudele, egoista e sfruttatore che adesso doveva cambiare o morire. E
cercavano il vero amore, la vera pace, la vera esistenza e la vera coscienza
spirituale.
Nell'estate che vide Bhaktivedanta Swami arrivare al 26 della Seconda Avenue, il
primo fronte della grande ribellione giovanile degli anni sessanta aveva già
penetrato il Lower East Side.
Qui erano liberi, liberi di vivere in semplice povertà ed esprimersi attraverso
l'arte, la musica, la droga e il sesso.
I discorsi sulla ricerca spirituale, I'LSD e la marijuana erano la chiave che
apriva nuovi regni di coscienza. Erano in voga le nozioni sulle culture e le
religioni orientali.
Attraverso la droga, lo yoga e la fratellanza, o semplicemente per il fatto di
essere liberi, in un modo o nell'altro, avrebbero raggiunto l'illuminazione.
Tutti dovevano avere una mentalità aperta e sviluppare la propria filosofia
cosmica con l'esperienza diretta e attraverso una coscienza espansa dagli
allucinogeni, il tutto amalgamato da letture eclettiche. E se la loro vita
appariva senza scopo, almeno si erano sottratti a un gioco inutile, dove chi
gioca si vende l'anima per i beni materiali e sostiene così un sistema che è già
marcio.
Era dunque il 1966, e migliaia di giovani camminavano per le strade del Lower
East Side, e non semplicemente in preda agli stupefacenti o impazziti (anche se
spesso lo erano davvero), ma in cerca della risposta ultima della vita,
ignorando completamente il "sistema" e la vita quotidiana di milioni di
americani "perbene".
Che la ricca terra d'America potesse nutrire tanto scontento tra i giovani era
una cosa che meravigliò Bhaktivedanta Swami.
Certo, era una prova in più che il benessere materiale, tanto sbandierato
dall'America, non poteva dare la felicità alla gente.
Bhaktivedanta Swami non vedeva l'infelicità che lo circondava nei termini di
cause immediate, sociali, politiche, economiche o culturale.
Né la vita dei bassifondi, né la gioventù ribelle erano realtà importanti per se
stesse. Erano semplicemente i segni di un malessere universale, che poteva
essere curato solo con la coscienza di Krishna.
Aveva compassione di tutta questa sofferenza, ma vedeva la vera soluzione.
Bhaktivedanta Swami non aveva fatto studi sulla contestazione giovanile prima di
trasferirsi nel Lower East Side.
Non aveva nemmeno previsto di venire qui e trovarsi tra tanti giovani. Ma nei
dieci mesi che erano passati dalla sua partenza da Calcutta era stato
trasportato da una parte all'altra per la forza delle circostanze o, come la
vedeva lui, per volontà di Krishna".
Per ordine del suo maestro spirituale era venuto in America, e per volontà di
Krishna era arrivato nel Lower East Side. La sua missione qui era la stessa di
quando stava nella Bowery, o nei quartieri alti, o anche in India.
Era concentrato sull'ordine del suo maestro spirituale e nella visione dei Veda,
una visione che non sarebbe stata influenzata dai cambiamenti radicali degli
anni sessanta.
E se questi ragazzi, per qualche cambiamento di clima nel paesaggio culturale
d'America, si sarebbero dimostrati più ricettivi, allora tanto meglio. E anche
questa sarebbe stata la volontà di Krishna. In realtà, a causa della pesante
influenza del kali-yuga, questo era il momento storico peggiore per approfondire
i valori spirituali - rivoluzione hippy o no. E Bhaktivedanta Swami cercava di
trapiantare la cultura vedica in un terreno più estraneo di quanto avesse mai
cercato di fare qualsiasi altro maestro spirituale.
Si aspettava dunque che il suo lavoro sarebbe stato estremamente difficile.
Eppure, in questo periodo generalmente così sfavorevole, appena prima
dell'arrivo di Bhaktivedanta Swami nel Lower East Side, la società americana era
stata pervasa da fremiti di insoddisfazione e di rivolta verso la stessa cultura
del kali-yuga, e ondate di ragazzi erano venuti a riversarsi nelle strade del
Lower East Side a New York, in cerca di qualcosa che fosse al di là della vita
ordinaria, un'alternativa, un appagamento spirituale.
Questi giovani, distaccati dal loro stereotipato passato materialista e riuniti
ora nel Lower East Side erano quelli stessi che per caso o per destino dovevano
diventare il gruppo a cui lo Swami avrebbe offerto kirtana e guida spirituale
nel suo negozietto.
L'arrivo di Bhaktivedanta Swami non fece molto rumore. I vicini notarono che
qualcun altro aveva preso il negozio di regali vicino alla lavanderia.
Adesso in vetrina c'era uno strano quadro, ma nessuno aveva idea di che cosa
stesse a significare. Non sapevano che cosa fosse la Bhagavad-gita, e i pochi
che lo sapevano pensarono che probabilmente si trattava di un negozio di libri
sullo yoga o qualcosa del genere.
I Portoricani del quartiere osservavano nella vetrina il quadro di Harvey Cohen
che raffigurava Sri Caitanya e i Suoi compagni che cantavano e danzavano, ma poi
si allontanavano con uno sguardo assente.
Il gestore della stazione di servizio della Mobil che si trovava a pochi metri
era assolutamente indifferente, per lui non faceva nessuna differenza.
I venditori di pietre tombali e gli impresari di pompe funebri che stavano
dall'altra parte della strada non se ne preoccupavano. E per i guidatori delle
innumerevoli auto e furgoni che passavano davanti al negozio, lo Swami non
esisteva neppure.
Ma lì intorno c'erano dei giovani che, incuriositi da quel dipinto, si
avvicinavano alla vetrina per leggere il cartello che stava accanto. Alcuni
sapevano perfino che cosa fosse la Bhagavad-gita, sebbene il dipinto con Sri
Caitanya e gli altri danzatori non sembrava avere alcuna attinenza.
Alcuni pensarono che forse sarebbero andati a sentire qualche lezione dello
Swami per vedere di cosa si trattasse.
Una mattina di luglio Howard Wheeler stava camminando in tutta fretta dal suo
appartamento a Mott Street verso la casa di un amico alla Quinta Strada, un
posto tranquillo dove sperava di trovare un po’ di pace.
Percorse Mott Street fino all'incrocio con Huston, svoltò a destra e cominciò a
camminare verso est, attraverso la Bowery, nel traffico rombante e tra i
vagabondi barcollanti, dirigendosi verso la Seconda Avenue.
Howard: Dopo aver attraversato la Bowery, appena prima della Seconda Avenue,
vidi Swamiji che camminava con disinvoltura sul marciapiede, con la testa alta e
la mano nel sacchetto del japa. Mi colpì come un famoso attore in un film visto
chissà quante volte.
Sembrava non avere età.
Indossava l'abito color zafferano tipico dei sannyasi e strane scarpe bianche a
punta. Mentre scendeva verso Huston, mi parve come il genio uscito dalla lampada
di Aladino.
Howard, che aveva ventisei anni, era un uomo alto, grande e grosso con i capelli
lunghi, una folta barba e degli occhiali con una montatura nera.
Era professore d'inglese all'università dell'Ohio ed era appena tornato da un
viaggio in India, dove era andato in cerca di un vero guru.
Bhaktivedanta Swami notò Howard ed entrambi si fermarono simultaneamente.
Howard tirò fuori la prima domanda che gli era apparsa nella mente: "Sei
indiano?"
Bhaktivedanta Swami sorrise: "Oh, si, e tu?"
Howard: Dissi di no, ma che ero appena tornato dall'India ed ero molto
interessato al suo paese e alla filosofia indù.
Mi disse che era di Calcutta e che ormai stava a New York da quasi dieci mesi.
I suoi occhi erano sinceri e amichevoli come quelli di un bambino, e perfino lì
in mezzo al frastuono dei furgoni diretti verso Huston Street, emanava una pace
e una freschezza che sembravano dovute al fatto di essere incrollabilmente
stabilito in qualcosa che era molto al di là della grande metropoli che rombava
intorno a noi.
Quel giorno Howard non arrivò mai dal suo amico.
Tornò nel suo appartamento di Mott Street, da Keith e Wally, i suoi compagni di
stanza, per raccontare a tutti quelli che conosceva del guru che era
inesplicabilmente apparso in mezzo a loro. Disse come era rimasto Iì per strada
a parlare con lo Swami, e che lo Swami aveva detto che abitava lì vicino, nella
Seconda Avenue, dove teneva delle conferenze.
Howard: Girai l'angolo insieme a lui. Mi mostrò un piccolo negozio tra la Prima
e la Seconda Strada, proprio accanto a una stazione di servizio della Mobil.
Era stato un negozio di curiosità e qualcuno aveva dipinto sopra la vetrina le
parole "Doni impareggiabili ". In quel momento non capii quanto fossero
profetiche quelle parole.
“È un buon posto?” mi chiese. Gli risposi di sì, credevo di sì.
Non avevo idea di che cosa offrisse nelle sue "lezioni", ma sapevo che tutti i
miei amici sarebbero stati lieti del fatto che uno swami indiano era arrivato
nella zona.
La voce si sparse.
Adesso non era più tanto facile venire per Carl Yeargens e alcuni altri, che
abitavano nella Bowery o a Chinatown e avevano altre cose da fare, ma Roy Dubois,
un venticinquenne che scriveva fumetti ed era andato a trovare lo Swami alla
Bowery, appena seppe del suo trasferimento volle andare a trovarlo.
James Green e Bill Epstein non avevano dimenticato lo Swami, e volevano andare
anche loro. Il ristorante Paradox era ancora un importante punto di riferimento,
e continuava a mandare gente interessata.
Altri ancora, come Stephen Guarino, videro il cartello dello Swami nella
vetrina.
Steve, di ventisei anni, era impiegato in un centro di assistenza sociale del
comune, e un giorno, nell'intervallo del pranzo, mentre andava a piedi dal suo
ufficio nella Quinta Strada verso la Seconda Avenue, vide il cartello che lo
Swami aveva attaccato alla vetrina con del nastro adesivo.
Aveva letto un'edizione tascabile della Bhagavad-gita e si ripromise di andare a
sentire qualche lezione dello Swami.
Anche Howard aveva notato il piccolo cartello nella vetrina, quel giorno che si
era fermato con lo Swami davanti al suo negozietto:
LEZIONI DI BHAGAVAD-GITA
A. C. BHAKTIVEDANTA SWAMI
LUNEDI, MERCOLEDI E VENERDI
dalle 19.00 alle 20.00
"Porterai i tuoi amici?" aveva chiesto Prabhupada.
"Sì", promise Howard. "Lunedì sera."
La sera estiva era calda, e il negozietto aveva la porta e le due finestre sul
retro aperte.
Diversi ragazzi, di cui molti indossavano pantaloni di fustagno neri e camicie
sportive con larghe strisce a colori spenti, avevano lasciato le loro scarpe da
tennis consunte accanto all'entrata e adesso erano seduti sul pavimento.
La maggior parte di loro veniva dal Lower East Side, nessuno aveva dovuto fare
molta strada per arrivare fin qui.
La piccola stanza era disadorna. Niente quadri, mobili o tappeti, nemmeno una
sedia. Solo qualche semplice stuoia di paglia. Una lampadina pendeva dal
soffitto, nel mezzo della stanza.
Erano le sette, e si erano già riunite una dozzina di persone quando d'un tratto
Bhaktivedanta Swami aprì una porta laterale ed entrò nella stanza.
Non portava camicia, e la stoffa color zafferano che era drappeggiata sui suo
dorso lasciava scoperte le braccia e una parte del petto.
La sua carnagione era di un bel colore bruno dorato, e a quelli che lo
guardavano così, con la testa rasata, gli orecchi dai lobi allungati e l'aspetto
grave, ricordava i quadri che avevano visto del Buddha in meditazione.
Era anziano, ma il suo portamento era eretto, luminoso e fresco. La sua fronte
era decorata dai segni giallo chiaro del tilaka vaisnava.
Bhaktivedanta Swami riconobbe il grande e barbuto Howard e sorrise. "Hai portato
i tuoi amici?"
"Sì", rispose Howard con la sua voce sonora e profonda.
"Ah, molto bene."
Bhaktivedanta Swami si tolse le sue scarpe bianche, sedette su una stuoia
sottile, di fronte alla sua congregazione, e fece segno a tutti che potevano
sedersi.
Distribuì diverse paia di cembali di ottone e fece una breve dimostrazione del
ritmo: uno... due... tre.
Cominciò a suonare, un suono argentino, inconsueto.
Cominciò a cantare: Hare Krishna, Hare Krishna, Krishna Krishna, Hare Hare /
Hare Rama, Hare Rama, Rama Rama, Hare Hare.
Ora toccava al pubblico. "Cantate", disse.
Alcuni lo conoscevano già, pian piano anche gli altri si unirono al canto, e
dopo qualche giro, tutti cantavano insieme.
La maggior parte di questi ragazzi, e le poche ragazze presenti, si erano già
imbarcati, in diverse occasioni, in viaggi psichedelici alla ricerca di un nuovo
mondo di espansione della coscienza.
Con coraggio, con avventatezza, si erano addentrati nelle acque turbolente e
proibite dell'LSD, del peyote e dei funghi magici. Senza dar retta agli
avvertimenti, avevano rischiato tutto per farlo.
Eppure c'era del merito nella loro audacia, nella loro volontà di scoprire altre
dimensioni del sé, di andare al di là dell'esistenza ordinaria anche se non
sapevano che cosa c'era al di là, o se sarebbero mai riusciti a tornare nella
sicurezza dell'ordinario.
Ma qualunque verità avessero trovato, rimanevano insoddisfatti, e qualunque
mondo avessero raggiunto, questi giovani viaggiatori psichedelici avevano dovuto
tornare nel Lower East Side.
Adesso stavano provando il mantra Hare Krishna.
Quando dai cembali dello Swami e dalla sua voce sonora si alzò improvvisamente
il kirtana, sentirono immediatamente che sarebbe stata una cosa veramente
eccezionale.
Era un'altra occasione di fare un "trip", e ben volentieri si lasciarono andare.
Vi abbandonavano la mente per esplorare i confini del canto, fin dove ne valeva
la pena.
La maggior parte di loro aveva già collegato il mantra con il misticismo delle
Upanisad e della Gita, che lanciava il suo richiamo con parole piene di mistero:
"Spirito eterno... che nega l'illusione."
Ma qualunque cosa sia questo mantra indiano, proviamolo. Lasciamo che le sue
onde ci portino su e su, fuori e lontano. Prendiamolo, e lasciamo che i suoi
effetti si facciano sentire. Qualunque sia il prezzo, ben venga.
Il canto sembrava abbastanza semplice e naturale. Era dolce e non avrebbe fatto
male a nessuno. In un certo senso, a suo modo, era proprio uno "sballo".
Mentre cantava nella sua personale estasi interiore, Bhaktivedanta Swami
osservava la sua eterogenea congregazione. Era entrato in un nuovo territorio
ora.
Nel suono squillante dei cembali, nel canto della voce solista, a cui rispondeva
il coro, il mantra Hare Krishna cresceva e si gonfiava, riempiendo la sera.
Alcuni vicini protestavano. Dei bambini portoricani, affascinati, apparvero alla
porta e davanti alla vetrina, a guardare dentro. Il sole tramontò.
Era senz'altro una cosa esotica, ma tutti potevano vedere che uno swami stava
innalzando un'antica preghiera alla gloria di Dio.
Non era rock o jazz. Era un religioso, uno swami, che dava una pubblica
dimostrazione religiosa.
Ma la combinazione era strana: un anziano swami indiano che cantava un antico
mantra, in un negozietto pieno di giovani hippy americani che rispondevano al
suo canto.
Bhaktivedanta Swami continuava a cantare, con la testa rasata alta e leggermente
inclinata, il corpo che tremava leggermente di emozione.
Pieno di fiducia, guidava il kirtana, assorto nella pura devozione, e loro
rispondevano.
Altri passanti venivano attratti come da una calamita alla vetrina e alla porta
spalancata. Alcuni lanciarono battute di scherno, ma il canto era troppo forte.
Nel suono del kirtana perfino i clacson delle auto erano un sottofondo appena
udibile. I motori delle auto e i furgoni continuavano a rombare, ma adesso il
rumore era sempre più lontano e non si notava più.
Riuniti sotto la debole luce della lampadina, nella stanza spoglia il gruppo
cantava seguendo lo Swami, e da un coro flebile ed esitante si trasformava in
qualcosa che assomigliava a un'armonia di voci.
Continuavano a cantare e a battere le mani, mettendoci dentro tutto il proprio
essere, sperando di scoprirne i segreti.
Lo Swami non stava solo dando una dimostrazione da cinque minuti. In quel
momento era il loro capo la loro guida in un regno sconosciuto.
Howard e Keith avevano fatto un breve incontro con un kirtana a Calcutta, ma la
cosa li aveva lasciati estranei.
Il canto non era mai stato così, proprio nel bel mezzo del Lower East Side, con
un vero swami che li guidava.
Nella loro mente c'era l'ambizione psichedelica di vedere il volto di Dio,
fantasie e visioni d'insegnamenti indù, e l'idea che "QUELLO" fosse una luce
impersonale.
Bhaktivedanta Swami aveva incontrato gruppi simili nella Bowery, e sapeva che
nemmeno questi stavano sperimentando il mantra con l'adeguata disciplina, il
rispetto dovuto e una conoscenza sufficiente. Ma andava bene lo stesso, potevano
cantare ugualmente a modo loro.
Con il tempo sarebbe venuta anche la sottomissione al suono spirituale, la
purificazione, l'illuminazione e l'estasi nel canto e nell'ascolto del mantra
Hare Krishna.
Fermò il kirtana. Il canto aveva spinto il mondo molto più indietro, ma ora il
Lower East Side si abbatté di nuovo su di loro.
I bambini sulla porta cominciarono a chiacchierare e a ridere tra loro. Di nuovo
si fece sentire il frastuono di auto e camion. E una voce gridò da un
appartamento vicino: "Basta! Silenzio!"
Erano le 19.30 passate. Era già volata mezz'ora.
Le sue lezioni erano molto semplici, eppure (per quei ragazzi irrequieti) anche
troppo piene di filosofia.
Alcuni non le reggono e si alzano improvvisamente dopo aver ascoltato le prime
parole dello Swami, si riallacciano le scarpe davanti alla porta e tornano in
strada. Altri se ne sono andati non appena hanno visto che il canto era finito.
Eppure, questo è il gruppo migliore che avesse mai avuto.
Ci sono alcuni del vecchio gruppo della Bowery. Ci sono anche i ragazzi di Mott
Street, e loro stanno cercando per l'appunto un guru.
Molti del gruppo hanno già letto la Bhagavad-gita e non sono troppo orgogliosi
per ascoltare e ammettere che non l'avevano capita.
Fuori della porta è un'altra sera di luglio, calda e rumorosa.
Le scuole sono finite, i bambini sono in vacanza, e stanno fuori in strada
finché fa buio.
Poco lontano c'è un grosso cane che abbaia, - "Bau! Bau! Bau!" - il traffico è
un costante trambusto, proprio fuori del negozio ci sono delle ragazzine che
strillano, e tutto questo rende difficile lo svolgimento della lezione. Ma
nonostante i bambini, il traffico e i cani, lui vuole che la porta rimanga
aperta.
Se la vede chiusa, dice: "Perché avete chiuso la porta? Potrebbe venire altra
gente." E continua, imperturbabile, a citare versi sanscriti, a tenere viva
l'attenzione del pubblico e a spiegare l'urgenza del suo messaggio, mentre
l'instancabile cacofonia rivaleggia con ogni sua parola...
"Bau! Bau! Bau!”
"Iiiiiiiiii! Yaaaaaaaaa!" Gli strilli delle ragazzine disturbano tutto
l'isolato. Da lontano, un uomo grida dalla finestra: "Via! Andatevene di qui!
Fuori!"
Bhaktivedanta Swami: "Chiedetegli di non fare baccano.”
Roy (uno dei ragazzi nel tempio): "C'è uno che sta mandando via i ragazzini,
adesso."
Bhaktivedanta Swami: "Sì, questi bambini stanno veramente disturbando.
Chiedetegli..."
Roy: "Sì, è proprio quello... quell'uomo li sta mandando via.
Bhaktivedanta Swami: "Fanno troppo rumore."
Roy: "Sì, li sta mandando via."
L'uomo manda via i bambini, ma torneranno. Non puoi scacciare i bambini dalla
strada, vivono lì.
E il grosso cane non la smette di abbaiare. E chi potrebbe fermare le macchine?
Ce ne sono sempre, di macchine.
Prabhupada usa le macchine per dare un esempio: quando una macchina si presenta
momentaneamente alla nostra vista quando spunta sulla Seconda Avenue, noi non
pensiamo certamente che non è mai esistita prima di manifestarsi ai nostri occhi
e che cessi di esistere una volta scomparsa alla nostra vista.
Similmente, quando Krishna Si sposta da un pianeta all'altro, non significa che
Egli non esista più, anche se così potrebbe sembrare. In realtà, Egli Si è
soltanto sottratto alla nostra vista.
Krishna e le Sue manifestazioni appaiono e scompaiono costantemente su
innumerevoli pianeti in tutti gli innumerevoli universi della creazione
materiale.
Le macchine continuano a passare, rombando con fragore a ogni parola pronunciata
da Bhaktivedanta Swami.
La porta è spalancata, e lui è fermo sulla riva di un fiume di ossido di
carbonio, asfalto, pneumatici stridenti e continue onde di traffico.
E' venuto da molto lontano, dalle rive della Yamuna, a Vrindavana, dove grandi
saggi e santi si sono riuniti in tutti i tempi per parlare della coscienza di
Krishna.
Ma i suoi ascoltatori vivono qui, in questo scenario, perciò lui è venuto qui,
sulle rive di questo tumultuoso fiume di traffico della Seconda Avenue, per
annunciare ad alta voce il suo messaggio senza tempo.
Continuava a sottolineare lo stesso punto: qualunque cosa facciate in coscienza
di Krishna, per quanto piccola sia, sarà per voi un bene eterno.
Eppure adesso, più che nei quartieri alti o nella Bowery, sta chiedendo ai suoi
ascoltatori di prendere la coscienza di Krishna completamente e diventare
devoti... E li rassicura...
"Non importa quello che una persona faceva prima, quali attività peccaminose.
Una persona può non essere subito perfetta, ma se s'impegna nel servizio
devozionale, sarà purificata."
Improvvisamente fischiando e gridando con la sua voce da ubriaco entra un
vagabondo della Bowery. I ragazzi rimangono seduti, non sapendo che fare.
Ubriaco: "Come va? Eh, torno subito. Ho portato un'altra cosa."
Bhaktivedanta Swami: "Non disturbare. Siediti. Stiamo parlando di cose serie."
Ubriaco: "Lo metterò qui. Una chiesa? Ah, bene, bene. Torno subito."
L'uomo ha i capelli bianchi, una corta barba brizzolata, e abiti sporchi e
puzzolenti. L'odore pervade tutto il tempio. Ma improvvisamente veleggia verso
la porta e sparisce.
Bhaktivedanta Swami soffoca una risatina e torna immediatamente alla sua
lezione.
Ma dopo cinque minuti il vecchio barbone è di ritorno, e si annuncia dalla
porta: "Come va?"
Porta con sé qualcosa.
Manovra con passo instabile attraverso il gruppo, diretto verso il fondo del
tempio, dove sta seduto lo Swami.
Apre la porta del gabinetto, ci mette dentro due rotoli di carta igienica,
chiude la porta, poi si volta verso il lavabo, ci mette sopra dei fazzoletti di
carta, e sotto altri due rotoli di carta igienica e altri fazzoletti di carta.
Poi si rialza e si volta verso lo Swami e i suoi ascoltatori.
Lo Swami lo guarda e gli dice: "Che cos'è?" Ora il vagabondo è silenzioso; ha
fatto il suo lavoro.
Lo Swarni comincia a ridere, ringrazia il suo visitatore, che ora muove verso la
porta: "Grazie. Grazie mille." Il barbone esce di scena.
"Guardate", ora Bhaktivedanta Swami si rivolge alla sua congregazione. "Offrire
qualche servizio è una tendenza naturale.
Guardate, il suo cervello non è a posto, ma ha pensato 'Ho qui qualcosa. Voglio
offrire qualche servizio'.
Guardate com'è naturale. Viene spontaneo."
I ragazzi si guardano in faccia l'un l'altro. E' veramente incredibile, prima il
canto con i cembali d'ottone, lo Swami che sembra Buddha e parla di Krishna e
canta, e adesso questa strana storia col barbone.
Ma lo Swami è tranquillo, resta sempre tranquillo, e se ne sta seduto sul
pavimento, come uno che non ha paura di nulla, a parlare della sua filosofia
dell'anima, di noi che diventiamo santi, e perfino del vecchio ubriacone che
diventa un santo!
Dopo quasi un'ora il cane sta ancora abbaiando e i bambini strillano ancora.
Lo Swami risponde ad alcune domande, poi comincia un altro kirtana.
E di nuovo il Lower East Side svanisce.
Comincia il canto: i cembali d'ottone, la voce di Bhaktivedanta Swami che guida
la melodia, e gli altri che rispondono. Va avanti per una mezz'ora e poi si
ferma.
I ragazzi rimangono seduti davanti allo Swami, mentre uno di loro gli porta una
mela, una piccola ciotola di legno e un coltello.
Mentre la maggior parte degli ascoltatori sta ancora seduta a guardare, cercando
di scoprire gli effetti del canto, come se fosse una nuova droga, lo Swami
taglia la mela a metà, poi in quattro parti, poi in otto e così via, finché ci
sono abbastanza pezzi per tutti. Ne prende uno per sé e chiede a uno dei ragazzi
di passare in giro con la ciotola.
Lo Swami piega indietro la testa e si fa scivolare abilmente in bocca una
fettina di mela, senza toccare la bocca con le mani. Mastica un po' lentamente,
a bocca chiusa.
I componenti della congregazione masticano in silenzio i pezzettini di mela. E
guardano lo Swami che si alza, si mette di nuovo le scarpe ed esce di scena
dalla porta laterale.
"Chiameremo la nostra associazione col nome di ISKCON." Bhaktivedanta Swami
aveva riso tutto contento la prima volta che aveva coniato la sigla.
Aveva cominciato le pratiche quella primavera, quando ancora viveva nella Bowery.
Ma ancor prima dell'inizio ufficiale aveva spesso parlato della sua
"Associazione Internazionale per la Coscienza di Krishna", che era anche apparsa
nelle sue lettere per l'India e sull'articolo del The Village Voice.
Un amico aveva suggerito che agli Occidentali sarebbe suonato più familiare
"Associazione Internazionale per la Coscienza di Dio". Ma "Dio" era un termine
vago, mentre "Krishna" era esatto e scientifico; dire "Coscienza di Dio" era
meno efficace spiritualmente, meno personale.
E se gli Occidentali non sapevano che Krishna era Dio, allora l'Associazione
Internazionale per la Coscienza di Krishna glielo avrebbe spiegato, diffondendo
le Sue glorie "in ogni città e villaggio".
La "Coscienza di Krishna" era la traduzione personale di Bhaktivedanta Swami di
una frase tratta dal Padyavali di Srila Rupa Gosvami, scritto nel sedicesimo
secolo.
Krishna-bhakti-rasa-bhavita:
"Essere assorti nel dolce sentimento che si prova nel compiere un servizio
devozionale per Krishna." I fini stabiliti nello statuto dell'ISKCON rivelavano
i pensieri di Bhaktivedanta Swami. Erano sette articoli, simili a quelli del
progetto per la Lega dei Devoti che aveva fondato a Jhansi, in India, nel 1954.
Il tentativo non aveva incontrato il successo, ma le sue intenzioni non erano
cambiate.
Le sette finalità dell'Associazione Internazionale per la Coscienza di Krishna:
Diffondere sistematicamente la conoscenza spirituale nelle masse, educare ogni
persona nelle tecniche della vita spirituale per combattere lo squilibrio di
valori della vita, e raggiungere la vera unità e la vera pace nel mondo.
Diffondere la coscienza di Krishna, così com'è rivelata nella Bhagavad-gita e
nello Srimad Bhagavatam.
Avvicinare tra loro i membri dell'Associazione e avvicinarli a Krishna, l'essere
primordiale, sviluppando così nei suoi componenti, e nell'umanità in generale,
l'idea che ogni anima è un frammento qualitativo di Dio (Krishna).
Insegnare e incoraggiare il movimento del sankirtana, il canto pubblico e
collettivo del santo nome di Dio, così com'è stato rivelato negli insegnamenti
di Sri Caitanya Mahaprabhu.
Costruire per i componenti dell'Associazione e per la società in genere un luogo
sacro dedicato ai divertimenti trascendentali della Persona di Krishna.
Avvicinare tra loro i suoi componenti per insegnare un modo di vivere più
semplice e naturale.
Pubblicare e distribuire periodici, riviste, libri e altri scritti al fine di
promuovere gli scopi sopra menzionati.
Senza preoccuparsi di quello che ne avrebbero pensato i firmatari dello statuto,
Bhaktivedanta Swami vedeva gli scopi dell'Associazione come realtà molto
prossime.
Come aveva commentato il signor Rubben, il conducente di metropolitana che aveva
incontrato Bhaktivedanta Swami su una panchina di un giardinetto di Manhattan
nel 1965, "Sembrava sapere che avrebbe avuto templi pieni di devoti. 'Ci sono
templi e libri' aveva detto. 'Esistono, ci sono, ma il tempo ci separa da
loro."'
Certamente nessuno di quei primi seguaci che avevano firmato gli articoli dello
statuto dell'ISKCON vedeva una realtà immediata nei progetti dello Swami, ma
questi sette scopi non erano una semplice retorica teistica inventata per
convincere qualche funzionario governativo dello Stato di New York.
Bhaktivedanta Swami era deciso a realizzare ogni punto del documento.
Per la presenza dello Swami, per gli insegnamenti che offriva e per i kirtana,
già tutti parlavano del negozietto come del "tempio". Ma era ancora un negozio
spoglio e squallido.
L'ispirazione a decorare il tempio venne dai ragazzi di Mott Street. Howard,
Keith e Wally architettarono un piano per fare una sorpresa allo Swami quando
sarebbe venuto per il kirtana della sera.
Wally tolse le tende dal loro appartamento, le portò in lavanderia (dove
lasciarono un'acqua color marrone scuro per quanto erano sporche) e le tinse di
rosso scuro.
L'appartamento di Mott Street era decorato con manifesti, dipinti e grandi
drappi di seta ornamentali che Howard e Keith avevano portato dall'India. I
ragazzi riunirono tutti i loro quadri, drappi, incensiere e altre cose e li
portarono, insieme con le tende rosso cupo, al negozio dove la loro giornata di
decorazione ebbe inizio.
Nel negozietto, i ragazzi costruirono una piattaforma di legno come seggio per
lo Swami e la coprirono con una vecchia pezza di velluto. Dietro la piattaforma,
sul muro tra le due finestre che davano sul cortile, appesero le tende rosse, e
accanto altre due tende arancioni.
Proprio in cima al posto occupato dallo Swami misero un pannello arancione, sul
quale appesero un grande dipinto originale di Radha Krishna, una tela rotonda,
opera di un ragazzo del gruppo, James Green.
Bhaktivedanta Swami aveva incaricato James di dipingerla, dandogli come modello
la sovraccoperta del suo Srimad-Bhagavalam con il suo rozzo disegno indiano. Le
figure di Radha e Krishna erano un po’ astratte, ma i critici d'arte del Lower
East Side che frequentavano il negozietto salutarono l'opera come un grande
capolavoro.
Keith e Howard erano un po’ meno sicuri che lo Swami approvasse i dipinti e le
stampe che avevano portato dall'India, perciò li appesero sul lato del tempio
che dava sulla strada, lontano dal seggio dello Swami.
Una di queste stampe aveva un soggetto molto famoso in India: Hanuman che vola
in cielo portando una montagna per Sri Ramacandra. I ragazzi non riuscivano a
immaginare che specie di essere fosse Hanuman. Pensarono che forse era un gatto,
per via della forma del labbro superiore.
Poi c'era la figura di un uomo con sei braccia - due braccia, di color verde
pallido, reggevano un arco e una freccia; un altro paio, blu, tenevano un
flauto; il terzo paio, di colore dorato, portavano un bastone e una ciotola.
Quando fu sera avevano già ricoperto la piattaforma, appeso le tende, le
decorazioni di seta, le stampe e i dipinti, e stavano decorando la piattaforma
con fiori e candele.
Qualcuno portò un cuscino per lo Swami e un altro cuscino sbiadito, tolto da una
vecchia sedia imbottita, da usare come poggiaschiena.
Oltre alle decorazioni, contributo dei ragazzi di Mott Street, c'era anche un
piccolo tappeto di stile orientale che era appartenuto al nonno di Robert
Nelson, uno dei ragazzi che aveva conosciuto lo Swami nei quartieri alti.
Robert aveva preso il tappetino dal suo garage in periferia e l'aveva portato in
metropolitana fino al 26 della Seconda Avenue.
Persino Raphael e Don, due hippy che sembravano interessati solo a mangiare a
sbafo e a trovare un posto per dormire, parteciparono ai lavori di decorazione.
Il segreto fu ben custodito, e i ragazzi erano ansiosi di vedere la reazione
dello Swami.
La sera, entrando per dare inizio al kirtana, Prabhupada guardò il tempio appena
decorato (avevano perfino acceso dei bastoncini d'incenso) e alzò le
sopracciglia in segno di meravigliata soddisfazione. “State facendo progressi”,
disse guardandosi attorno nella stanza con un grande sorriso. "Sì", aggiunse,
"questa è coscienza di Krishna."
La sua gioia improvvisa sembrò quasi la ricompensa per i loro sinceri sforzi.
Poi, salì sulla piattaforma, mentre i ragazzi trattenevano il respiro sperando
che reggesse, e si sedette, fissando i devoti e le decorazioni.
Erano riusciti a soddisfarlo.
Ma ora prese un aspetto estremamente serio, e sebbene loro fossero certi che era
lo stesso Swami di sempre, sentirono la gola chiudersi e le occhiate felici che
si stavano scambiando si abbassarono improvvisamente lasciando posto a un senso
d'incertezza e nervosismo.
Mentre guardavano l'espressione seria dello Swamiji, la gioia di pochi istanti
prima sembrò improvvisamente infantile. Come una nuvola copre rapidamente il
sole con un'ombra scura, lo Swami coprì la sua allegria con un'improvvisa
serietà, ed essi spontaneamente decisero di seguirlo, prendendo un atteggiamento
più serio.
Prese in mano i karatala e di nuovo il suo sorriso balenò in un raggio di
apprezzamento, e il loro cuore rispose con un raggio di felicità.
Il tempio era ancora un minuscolo negozietto, infestato da molti scarafaggi
nascosti e no, con il pavimento sconnesso e un'illuminazione scarsa. Ma poiché
la maggior parte delle decorazioni erano indiane, adesso aveva un'atmosfera
autentica, specialmente con lo Swami presente sulla piattaforma. Ora chi entrava
aveva la netta impressione di essere improvvisamente entrato in un piccolo
tempio indiano.
Bhaktivedanta Swami guardava il suo gruppetto di seguaci. Era commosso perché
gli avevano offerto un seggio d'onore e per i loro tentativi di decorare il
negozietto di Krishna.
Non era cosa nuova per lui vedere un devoto che faceva un'offerta a Krishna. Ma
questo era nuovo. Il seme della bhakti stava crescendo a New York, e
naturalmente lui, il giardiniere di questo tenero germoglio, era commosso per la
misericordia di Krishna.
Soffermò lo sguardo sui quadri appesi al muro e disse: "Domani verrò a dare
un'occhiata ai quadri e vi dirò quelli che vanno bene."
Il giorno dopo, Bhaktivedanta Swami scese per dare il suo giudizio sulla nuova
esposizione artistica. C'era un acquerello incorniciato, che raffigurava un uomo
che suonava un tamburo e una ragazza che danzava. "Questo va bene", disse.
Ma un altro dipinto di donna era più mondano e lui disse: "No, questo non è
molto adatto." Si diresse verso il fondo del tempio, seguito ansiosamente da
Howard, Keith e Wally. Quando arrivò alla figura con sei braccia, disse: "Oh,
questo è molto bello."
"Chi è?" chiese Wally.
"E' il Signore Caitanya", rispose Swamiji.
"Perché ha sei braccia?"
"Perché Si è manifestato sia come Rama che come Krishna. Queste due sono le
braccia di Rama, e queste altre le braccia di Krishna."
'E quelle altre due?" chiese Keith.
"Quelle sono le braccia di un sannyasi."
Prosegui verso il dipinto successive. "Anche questo è molto bello."
"Chi è?" chiese Howard.
"Si chiama Hanuman."
"E' un gatto?"
"No", rispose Swamiji. "E' una scimmia."
Hanuman è glorificato nel Ramayana, un'antica Scrittura vedica, come il valoroso
e fedele servitore di Sri Ramacandra. Milioni di Indiani adorano l'avatara Sri
Rama e il Suo servitore Hanuman, le cui imprese sono eternamente celebrate nel
teatro, nel cinema, nell'arte e adorate nei templi.
Dimostrando di non conoscere Hanuman, i ragazzi di Mott Street non manifestavano
minore ignoranza delle vecchie signore della città alta, che avevano tutte preso
un'aria smarrita e assente quando Swami Bhaktivedanta aveva chiesto se qualcuna
di loro avesse mai visto un'immagine di Krishna.
I mistici del Lower East Side non sapevano distinguere tra Hanuman e un gatto, e
avevano riportato dalla loro versione hashish dell'India un'immagine di Sri
Caitanya Mahaprabhu senza nemmeno sapere chi fosse.
Eppure c'era un'importante differenza tra questi ragazzi e le signore di prima:
i ragazzi stavano servendo Swamiji e cantando Hare Krishna. Ne avevano
abbastanza della vita materiale e della sindrome borghese di lavoro-guadagno.
Il loro cuore si era risvegliato alla promessa di espandere la coscienza di
Krishna, come aveva detto lo Swamiji, e provavano in sua compagnie qualcosa di
elevato.
Come il vagabondo della Bowery che era venuto ad offrire della carta igienica
durante la lezione di Bhaktivedanta Swami, i ragazzi della Lower East Side non
avevano il cervello completamente a posto, eppure, e Bhaktivedanta Swami lo
vedeva bene, Krishna li stava guidando dall'interno del loro cuore.
Bhaktivedanta Swami sapeva che sarebbero cambiati in meglio, cantando e
ascoltando Hare Krishna.
L'estate del 1966 scivolava nell'agosto, e Prabhupada stava bene. Per lui,
quelli erano giorni felici.
Gli abitanti di New York si lamentavano delle ondate di calore estivo, ma questo
non causava alcun inconveniente a una persona abituata alle temperature da oltre
40 gradi delle roventi estati di Vrindavana.
"È come stare in India", diceva, e andava in giro senza camicia, con l'aspetto
tranquillo e rilassato di chi si sente a casa propria.
Aveva pensato che in America sarebbe stato costretto a vivere di patate bollite
(altrimenti non ci sarebbe stato altro che carne da mangiare), ma ecco che stava
mangiando allegramente lo stesso riso, dal e capati, cucinati nella stessa
pentola a tre piani che usava in India.
Anche il lavoro sullo Srimad Bhagavatam era proseguito regolarmente da quando si
era trasferito nell'appartamento della Seconda Avenue. E ora Krishna gli stava
portando questi ragazzi sinceri che cucinavano, battevano a macchina e lo
ascoltavano regolarmente, cantavano Hare Krishna e volevano impegnarsi di più.
Prabhupada era ancora un predicatore solitario, libero di andarsene quando
voleva, che scriveva i suoi libri in relazione intima con Krishna, senza
dipendere dai ragazzi del negozio. Ma ora aveva adottato l'Associazione
Internazionale per la Coscienza di Krishna come il suo bambino spirituale.
I giovani interessati, e alcuni già cantavano regolarmente i giri da più di un
mese, erano spiritualmente come bambini che ancora non si reggevano in piedi da
soli, e lui sentiva su di sé la responsabilità di guidarli.
Stavano cominciando a considerarlo come loro maestro spirituale e gli avevano
affidato la guida della loro vita.
Sebbene non fossero pronti a seguire subito le molteplici regole che osservavano
i brahmana dell'India, le prospettive erano buone.
Secondo Rupa Gosvami, il principio più importante era quello di diventare
coscienti di Krishna, "in un modo o nell'altro".
La gente doveva cantare Hare Krishna e impegnarsi nel servizio devozionale.
Tutti dovevano impegnare ciò che possedevano al servizio di Krishna. E
Prabhupada stava applicando questo principio basilare della coscienza di Krishna
fino all'estremo, più in là di quanto si fosse mai spinto nessuno nella storia
vaisnava.
Anche se impegnava i ragazzi a cucinare e a battere a macchina, non è che lui
lavorasse di meno. Anzi, per ogni anima sincera che si faceva avanti a chiedere
servizio, ne venivano cento che non avevano nessuna intenzione di servire, ma
erano motivati unicamente da un sentimento di sfida.
Prabhupada parlava con loro, talvolta gridando e battendo il pugno sul tavolo,
difendendo Krishna contro la filosofia mayavada. Anche questo era il suo
servizio a Srila Bhaktisiddhanta Sarasvati Thakura.
Non era venuto in America per mettersi a riposo. Ogni giorno che passava
appariva sempre più chiaro che per lui lavoro, seguaci e oppositori sarebbero
aumentati sempre di più.
Quanto poteva fare? Questo era nelle mani di Krishna. "Sono vecchio", diceva.
"Potrei andarmene in qualsiasi momento."
Ma se avesse dovuto "andare via" adesso, certamente anche la coscienza di
Krishna sarebbe sparita con lui, perché l'Associazione per la Coscienza di
Krishna era lui, lui soltanto: la sua figura che guidava il canto facendo
ondeggiare la testa avanti e indietro in piccoli movimenti di estasi, la sua
figura che entrava e usciva dal tempio passando per il cortiletto, la sua
persona sorridente seduta nell'appartamento a parlare di filosofia per ore, lui
era l'unico sostegno e la vita stessa della piccola, fragile e controllata
atmosfera della coscienza di Krishna nel Lower East Side di New York.
Nella stanza retrostante al suo appartamento Prabhupada era generalmente solo,
specialmente nelle prime ore del mattino, le due, le tre o le quattro del
mattino quando in giro tutti dormivano.
In queste ore antelucane la sua stanza era immersa nel silenzio, e lui lavorava
da solo, nell'intimità della sua relazione con Krishna. Stava seduto sul
pavimento, dietro la valigia che gli faceva da tavolino, e adorava Krishna
battendo a macchina le traduzioni e le spiegazioni del suo Srimad Bhagavatam. Ma
questa stanza era la stessa in cui riceveva gli ospiti, e chiunque si fosse
spinto fino a bussare alla porta dello Swami poteva entrare a parlare con lui in
qualsiasi momento, personalmente.
Prabhupada allora sollevava la testa dal tavolino, si appoggiava con la schiena
al muro e dava il suo tempo per parlare, ascoltare, rispondere alle domande, e
talvolta discutere animatamente o scherzare.
Un ospite poteva rimanere da solo con lui per mezz'ora prima che qualcun altro
bussasse alla sua porta, e Swami invitasse il nuovo venuto a unirsi a loro.
Arrivavano nuovi ospiti e quelli vecchi se ne andavano, ma Swamiji rimaneva lì a
parlare.
Generalmente queste visite erano formali, i suoi ospiti facevano domande sulla
filosofia e lui rispondeva, un po' come faceva giù nel negozietto. Ma di tanto
in tanto, alcuni tra i ragazzi che stavano cominciando a seguirlo più da vicino
monopolizzavano il suo tempo, specialmente il martedì, il giovedì, il sabato e
la domenica sera, quando non c'era la lezione al tempio.
Spesso gli facevano delle domande personali: Com'era stato il suo arrivo a New
York? E l'India? Aveva dei discepoli là in India? I suoi familiari erano devoti
di Krishna? Com'era il suo maestro spirituale? E allora lui parlava, in un modo
diverso, più intimo e ricco di umorismo.
Una sera raccontò come aveva incontrato il suo maestro spirituale. Raccontava
anche della sua infanzia in India, di come aveva cominciato la sua attività
farmaceutica, e come aveva lasciato la casa nel 1959 per prendere il sannyasa.
I ragazzi si mostravano molto interessati, ma talmente ignoranti sulle cose di
cui parlava lo Swami che spesso quando uscivano parole come mrdanga o sannyasa
dovevano fermarlo per chiedere cosa significassero, e lui cambiava il filo del
discorso, parlando di spezie indiane, tamburi indiani e perfino donne indiane. E
su tutti i suoi discorsi, alla fine faceva risplendere la luce degli sastra.
Queste chiacchierate non erano razionate, le distribuiva abbondantemente per
ore, giorno dopo giorno, finché c'era qualcuno che mostrava un interesse vivo e
genuino.
A mezzogiorno la stanza anteriore dell'appartamento dello Swami diventava una
sala da pranzo, e alla sera un luogo di intima adorazione.
Swamiji aveva mantenuto pulita e spoglia la stanza, con i suoi undici metri
quadrati di parquet di legno resistente; il solitario tavolino appoggiato al
muro tra le due finestre che davano sul cortile era l'unico mobile.
Adesso ogni giorno, a mezzogiorno, c'erano una dozzina di ragazzi a pranzo da
lui. Il pranzo era preparato da Keith, che stava in cucina tutta la mattinata.
Dapprima Keith aveva cucinato solo per lo Swami. Era diventato un vero maestro
nell'arte di cucinare dal, riso e sabji nella pentola a tre piani dello Swami, e
in genere ce n'era abbastanza anche per due o tre ospiti. Ma ben presto avevano
cominciato a riunirsi altri ospiti, e Swamiji aveva detto a Keith di aumentare
le dosi (mettendo da parte il piccolo bollitore a tre piani) finché Keith si era
ritrovato a cucinare per una dozzina di ragazzi affamati.
I due "convittori", Raphael e Don, sebbene non fossero molto interessati ai
discorsi di Swamiji, arrivavano ogni giorno puntuali per il prasada, di solito
con un paio di amici che si erano avventurati fino al negozietto.
Steve passava di lì durante l'intervallo del pranzo dal suo ufficio. Il gruppo
di Mott Street veniva sempre. E c'erano anche altri. La cucina era fornita delle
spezie più comuni in India: peperoncino fresco, zenzero fresco, semi di cumino,
curcuma e assafetida. Keith s'impadronì delle principale tecniche gastronomiche
e le passò al suo amico Chuck, che divenne il suo assistente.
Gli altri ragazzi rimanevano sulla porta del cucinino a guardare Keith, mentre
uno dopo l'altro gli spessi capati, simili a frittelle, si gonfiavano come
palloni sulla fiamma libera e andavano a far compagnie agli altri in una pila
fumante.
Mentre il fine riso basmati finiva di cuocere per diventare un ricco piatto
morbido e bianco, e il sabji sobbolliva, i preparativi per il pranzo
raggiungevano l'apice con "il chaunce".
Keith preparava il chaunce esattamente come gli aveva mostrato Swamiji. Sulla
fiamma metteva una tazza di metallo, con due dita di burro chiarificato e poi
metteva i semi di cumino.
Quando i semi erano diventati scuri aggiungeva il peperoncino, e mentre il
peperoncino anneriva, un fumo penetrante acre cominciava a uscire dalla tazza.
Il chaunce era pronto.
Con le pinze da cucina, Keith sollevava la tazza, che con il suo contenuto
bollente e scoppiettante fumava come il pentolone della strega, e la portava
fino all'orlo della pentola dove bolliva il dal.
Sollevava leggermente il coperchio, rovesciava dentro il chaunce bollente con un
rapido e abile movimento del polso, e immediatamente rimetteva a posto il
coperchio... PAM! L'incontro del chance e del dal creava un'esplosione, salutata
con esclamazioni di gioia da quelli che stavano sulla porta, perché significava
che il pranzo era pronto.
L'operazione finale era così "volatile" che una volta proiettò in aria il
coperchio che picchiò sul soffitto con un forte rumore metallico, causando
piccole ustioni alla mano di Keith.
Alcuni vicini si lamentavano dei fumi acri e penetranti. Ma i devoti ne andavano
matti.
Quando il pranzo era pronto, Swamiji andava a lavarsi le mani e la bocca in
bagno, poi arrivava nella stanza di fronte, con i suoi morbidi piedi dalla
pianta rosata sempre scalzi, e con il dhoti color zafferano che gli arrivava
alle caviglie.
Si fermava davanti al tavolino dell'altare, dove stava il quadro di Sri Caitanya
e i Suoi compagni e mentre i suoi seguaci si disponevano tutt'intorno a lui.
Keith entrava con un grosso vassoio di capati, ammucchiati a dozzine, e lo
metteva per terra davanti al tavolino dell'altare, insieme alle pentole del
riso, del dal e del sabji.
Poi Swamiji recitava le preghiere bengali per offrire il cibo al Signore, e
tutti i presenti lo imitavano inchinandosi con la testa e le ginocchia sul
pavimento, cercando di ripetere con la migliore approssimazione la preghiera
bengali, una parola per volta.
Mentre il vapore mescolato con i differenti aromi delle preparazioni si alzava
come un'offerta d'incenso davanti all'immagine di Sri Caitanya, i seguaci dello
Swami chinavano la testa sul pavimento di legno mormorando le preghiere.
Poi Swamiji si sedeva con i suoi amici mangiando lo stesso loro prasada, e in
più prendeva una banana e una tazza di latte bollente. Affettava la banana
spingendola in basso sul bordo della tazza di metallo, e le fettine cadevano nel
latte bollente.
Bhaktivedanta Swami aveva dichiarato apertamente che tutti dovevano mangiare più
prasada possibile, e questo creava un'atmosfera di allegria e di familiarità.
Nessuno poteva rimanere lì seduto a sbocconcellare dal piatto e mangiucchiare
educatamente. Mangiavano con un gusto ampiamente incoraggiati da Swamiji.
Se vedeva che qualcuno non mangiava di gusto, lo chiamava per nome e protestava
sorridendo: "Perché non mangi? Prendi prasada." E rideva. "Mentre ero sulla
nave, diretto verso il vostro Paese, pensavo: come potranno mai mangiare questo
cibo, gli Americani?" E quando i ragazzi spingevano avanti il piatto per il bis,
Keith riempiva i piatti, altro riso, dal, capati e sabji.
Dopotutto era spirituale. Dovevi mangiare tanto. Ti purificava. Ti liberava da
maya. E poi era buono, anzi, delizioso e saporito. Era molto meglio del cibo
americano. Era come cantare. Era uno "sballo". Potevi veramente "sballare"
mangiando questo cibo.
Mangiavano con la mano destra, all'indiana. Keith e Howard l'avevano già
imparato in India, e avevano anche assaggiato dei piatti simili ma, come dissero
allo Swami e ai presenti che affollavano la stanza, in India non avevano mai
mangiato niente di così buono.
C'era un ragazzo molto giovane, Stanley, e Swamiji, come un padre, si assicurava
che mangiasse abbastanza. La madre di Stanley era venuta a parlare con lo
Swamiji e gli aveva detto che avrebbe permesso a suo figlio di vivere nel
monastero solo se lui si fosse preso personalmente cura del ragazzo. Swamiji
aveva accettato.
Ogni giorno, puntualmente, incoraggiava il ragazzo a mangiare, e Stanley
sviluppava un appetito sempre più vorace, arrivando a consumare fino a dieci
capati in un solo pasto (e ne avrebbe presi di più se lo Swami non gli avesse
detto di smettere). Ma a parte questo limite di dieci capati che lo Swami aveva
fissato a Stanley, la parola d'ordine era sempre "di più... prendine ancora di
più."
Quando aveva finito, Swamiji si alzava e usciva dalla stanza, e Keith si
affrettava ad arruolare due volontari per aiutarlo a pulire la cucina, mentre
gli altri se ne andavano.
Ogni tanto, la domenica, Swamiji cucinava personalmente una festa con speciali
piatti indiani.
Steve: Swamiji preparava personalmente il prasada e lo distribuiva di sopra,
nella stanza anteriore del suo appartamento. Ci sedevamo tutti in fila, e mi
ricordo che lui camminava su e giù in mezzo alle file di ragazzi, passando
davanti a noi a piedi nudi e servendo le preparazioni dalle varie pentole con un
cucchiaio di legno e lo distribuiva di sopra, nella stanza anteriore del suo
appartamento.
Ci sedevamo tutti in fila, e mi ricordo che lui camminava su e giù in mezzo alle
file di ragazzi, passando davanti a noi a piedi nudi e servendo le preparazioni
dalle varie pentole con un cucchiaio di legno.
Ci chiedeva quello che volevamo, ancora un pò di questo? E ci serviva con
piacere.
Non erano piatti ordinari, ma vere e proprie specialità come il riso dolce e i
kacauri, dal gusto davvero speciale. Anche dopo che tutti ne avevano avuto un
piatto intero, lui tornava e ci chiedeva di prendere qualcos'altro.
Una volta venne da me e mi chiese se volevo ancora qualcosa, un pò di riso
dolce? Ancora preso dai miei equivoci iniziali sulla vita spirituale, credevo
che avrei dovuto rinunciare a ciò che mi piaceva di più, perciò dissi che avrei
preso del riso semplice.
Ma anche quest’altro riso "semplice" era un incredibile riso giallo con palline
di formaggio fritto.
Nelle altre sere l'appartamento di Swamiji era tranquillo. Spesso rimaneva da
solo per tutta la sera, battendo a macchina le traduzioni dello Srimad
Bhagavatam o discorrendo tranquillamente con uno o due ospiti, fino alle dieci
di sera.
Ma nelle sere delle conferenze, lunedì, mercoledì e venerdì, l'attività ferveva
tutt'intorno a lui.
Non era più solo. I suoi nuovi seguaci l'aiutavano e partecipavano al suo stato
d'animo, che era quello di portare la gente a cantare Hare Krishna e ad
ascoltare la filosofia della coscienza di Krishna.
Tutti i lunedì, mercoledì e venerdì sera c’era il kirtana.
Alcuni devoti rimanevano giù per accogliere gli ospiti e per spiegare qualcosa a
proposito dello Swami e del canto. Ma senza lo Swami non poteva cominciare
nulla.
Nessuno sapeva suonare la mrdanga e nessuno osava pensare di guidare il canto
del mantra al posto di Swamiji. Potevano cominciare solo quando entrava lui,
alle sette di sera.
Aveva appena fatto la doccia, era vestito dei suoi puliti abiti indiani tessuti
a mano, e le sue braccia e il corpo erano decorati con i segni vaisnava, simili
a frecce.
Swamiji lasciava il suo appartamento e scendeva per un'altra estatica
opportunità di glorificare Krishna. Il minuscolo tempio lo aspettava, affollato
di giovani americani, ingenui, selvaggi e completamente all'oscuro del
comportamento brahminico.
Come al solito Keith era in cucina a preparare il pranzo, ma oggi Swamiji era
accanto a lui, di fianco ai fornelli, e osservava il suo allievo.
Keith si fermò un attimo e sollevò lo sguardo dalla pentola: "Swamiji, pensi che
potrei diventare tuo discepolo?"
"Sì", rispose Swamiji. "Perché no? Il tuo nome sarà Krishna dasa."
Questa semplice conversazione fu la prima richiesta di iniziazione e la prima
risposta affermativa dello Swami. Ma non era tutto qui.
Swamiji annunciò che presto ci sarebbero state le iniziazioni. "Cos'è
l'iniziazione, Swamiji?" chiese uno dei ragazzi, e Swamiji rispose: "Ve lo dirò
più avanti."
Per prima cosa dovevano farsi un japa.
Keith andò nel negozio di pellami Tandy e comprò delle palline di legno di un
centimetro di diametro e dello spago per infilarle. Swamiji aveva detto che era
molto meglio contare i mantra sul japa mentre si cantava, un japa di 108
palline, per essere esatti.
Questo impegnava il senso del tatto; così, come i vaisnava dell'India, avrebbero
potuto contare quante volte avevano cantato il mantra. Alcuni devoti in India
avevano dei japa con più di mille palline, aveva detto Swamiji, e li
percorrevano diverse volte recitando il mantra.
Mostrò ai ragazzi come fare un doppio nodo tra ognuna delle 108 palline.
Il numero 108 aveva un significato particolare: le Upanisad erano 108, e 108
erano anche le gopi più importanti, le più grandi devote di Sri Krishna.
Gli iniziandi dovevano pronunciare i voti, disse, e uno di questi sarebbe stato
il voto di cantare un certo numero di giri di japa al giorno.
Forse una dozzina di ragazzi di Swamiji erano pronti, ma non c'era nessun rigido
criterio di scelta; chi voleva poteva prendere l'iniziazione.
Steve: Già facevo tutto quello che Swamiji raccomandava e avevo l'impressione
che essere iniziato fosse un impegno gravoso. Con le mie ultime velleità di
rimanere completamente indipendente, esitavo ad accettare l ’iniziazione.
Gli amici di Swamiji vedevano l'iniziazione in modi diversi. Per alcuni era una
cosa molto seria, e altri la consideravano una festa o uno spettacolo
interessante.
Qualche giorno prima della cerimonia, mentre fabbricavano i loro japa nel
cortile, Wally e Howard parlavano tra loro.
Wally: "È solo una formalità. Tu accetti Swamiji come il tuo maestro
spirituale."
Howard: "Ma questo che cosa comporta?"
"Beh, nessuno lo sa di preciso. In India è una pratica molto comune. Pensi di
non volerlo come maestro spirituale?"
Howard: "Non so. Sembrerebbe un buon maestro spirituale, qualunque cosa sia.
Voglio dire, mi piace, come mi piacciono i suoi insegnamenti, perciò in un certo
senso è già il mio maestro spirituale. Non riesco a capire che cosa potrebbe
cambiare con l'iniziazione."
Wally: "Neanch'io. Penso che non cambierà nulla. E' solo una formalità."
L'8 settembre era Janmastami, il giorno dell'apparizione di Sri Krishna.
Un anno prima Bhaktivedanta Swami aveva festeggiato il compleanno di Krishna a
bordo del Jaladuta, a poca distanza da Colombo. Ora, esattamente un anno dopo,
aveva un piccolo gruppo di ragazzi che cantavano Hare Krishna.
Li avrebbe riuniti, avrebbe chiesto loro di osservare un giorno di canto,
lettura delle Scritture, digiuno e festa e il giorno seguente ci sarebbero state
le iniziazioni.
Alle sei Swamiji scese per tenere la solita lezione del mattino, e uno dei
ragazzi gli chiese se poteva leggere il suo manoscritto. Swamiji si schernì un
pò ma non poté nascondere il suo piacere nel sentirsi chiedere di leggere il suo
commento personale della Bhagavad-gita.
Di solito leggeva un verso dall'edizione Oxford della Gita, tradotta dal dott.
Radhakrishnan. Sebbene i commenti presentassero la filosofia impersonalista,
Swamiji aveva detto che le traduzioni erano accurate al novanta per cento.
Ma questa mattina mandò su Roy a prendere il manoscritto e per un'ora lesse
dalle sue pagine dattiloscritte.
Per osservare Janmastami c'erano regole speciali: non si doveva mangiare e
bisognava passare la giornata a cantare, a leggere e a parlare della coscienza
di Krishna.
Se qualcuno si sentiva troppo debole, disse, c'era della frutta in cucina. Ma
sarebbe stato meglio digiunare fino alla festa di mezzanotte, proprio come
facevano i devoti in India.
Disse che in India milioni di persone, indù, musulmani e tutti gli altri,
celebravano il compleanno di Sri Krishna. In ogni tempio c'era una festa e si
celebravano i divertimenti di Sri Krishna.
"E ora” , disse infine, "vi dirò che cosa significa iniziazione.
Iniziazione significa che il maestro spirituale accetta di prendersi cura del
suo discepolo, e il discepolo accetta di adorare il maestro spirituale come
Dio." Fece una pausa.
Nessuno fiatò. "Ci sono domande?" Non ce n'erano, perciò si alzò e uscì dalla
porta.
I devoti erano rimasti esterrefatti. Avevano sentito bene? Cos'aveva detto? Per
settimane intere aveva spiegato che se qualcuno dichiara di essere Dio, bisogna
considerarlo un cane.
"Non ci capisco più nulla", disse Wally.
"Nessuno ci capisce più nulla", disse Howard. "Swamiji ha appena buttato una
bomba."
Pensarono a Keith. Lui era una persona saggia. Consultiamo Keith. Ma Keith era
all'ospedale.
Parlando tra loro non facevano che aumentare sempre più la confusione. La frase
di Swamiji li aveva gettati nella più grande confusione. Alla fine Wally decise
di andare a trovare Keith all'ospedale.
Keith ascoltò tutta la storia. Ascoltò che Swamiji aveva detto di digiunare, che
aveva letto dal suo manoscritto, poi aveva detto che avrebbe spiegato cosa
significava iniziazione, e tutti avevano aperto gli orecchi, tutti tesi in
avanti per sentire... e Swamiji aveva lanciato la bomba.
"Lo studente accetta il maestro spirituale e acconsente ad adorarlo come Dio. Ci
sono domande?" E Swamiji era uscito. "Non so più se voglio ancora prendere
l'iniziazione, adesso", confessa Wally. "Dobbiamo adorarlo come Dio."
"Beh, in un certo senso lo state già facendo, perché fate tutto quello che lui
vi dice", rispose Keith, e disse che avrebbero dovuto parlarne con Swamiji...
prima dell'iniziazione.
Wally tornò al tempio a consultarsi con Howard, e insieme salirono
all'appartamento di Swamiji.
"Quello che ci hai detto stamattina", esordì Howard, "significa che dobbiamo
accettare l'idea che il maestro spirituale è Dio?"
"Significa che gli è dovuto lo stesso rispetto che si ha per Dio, perché è il
Suo rappresentante.
Equivale a Dio perché può dare Dio al discepolo sincero. E' chiaro?" Era chiaro.
Quel giorno quasi tutti gli iniziandi passarono diverse ore a infilare i loro
japa fatti di palline di legno di un rosso brillante. Dopo aver assicurato
un'estremità dello spago a un calorifero o a una sbarra della finestra, facevano
scivolare sullo spago una pallina per volta e la fissavano con due nodi ben
stretti, cantando un mantra Hare Krishna per ogni pallina.
Era servizio devozionale questo, cantare Hare Krishna e infilare il japa per
l'iniziazione.
Ogni pallina che fissavano con un nodo sembrava segnare un evento decisivo.
Swamiji aveva detto che in India i devoti cantavano almeno sessantaquattro giri
di japa al giorno.
Recitare una volta il mantra Hare Krishna su ognuna delle 108 palline era
chiamato "un giro".
Il suo maestro spirituale aveva detto che chi non era capace di cantare
sessantaquattro giri al giorno era un'anima caduta.
Dapprima alcuni dei ragazzi, valutando il fatto di dover cantare sessantaquattro
giri al giorno, rimasero perplessi: ci avrebbero messo tutto il giorno! Come
potevano andare a lavorare se dovevano cantare sessantaquattro giri al giorno?
Poi qualcuno disse che Swamiji aveva detto che per l'Occidente trentadue giri
sarebbero stati il minimo sufficiente. Wally disse che aveva sentito Swamiji
dire venticinque, ma anche quello sembrava impossibile.
Poi Swamiji chiese il minimo assoluto: sedici giri al giorno, ma non di meno.
Chiunque prendesse l'iniziazione doveva prometterlo.
La fabbricazione dei japa, il canto, la lettura, e i pisolini, riempirono la
giornata, fino alle undici di sera, quando tutti furono invitati a salire da
Swamiji.
Mentre sfilavano per il cortile, sentivano nell'aria una calma insolita, e
Houston Street, dall'altra parte del muro, era immersa nel silenzio. Non c'era
luna.
Mentre i suoi seguaci sedevano sul pavimento, mangiando allegramente il prasada
dai piatti di plastica, Swamiji si sedette in mezzo a loro per raccontare la
storia della nascita di Sri Krishna.
Krishna era apparso proprio in questa sera, cinquemila anni prima. Era nato come
il figlio di Vasudeva e Devaki nella prigione del re Kamsa, a mezzanotte, e
immediatamente Suo padre, Vasudeva, L'aveva portato a Vrindavana, dove sarebbe
cresciuto come il figlio di Nanda Maharaja, che era un pastore.
Swamiji parlò anche della necessità di purificarsi per poter fare progressi
nella vita spirituale.
"Non è sufficiente limitarsi a recitare alcune parole sacre", disse. Bisogna
essere puri, all'interno e all'esterno.
Il fatto di cantare puramente ci fa avanzare sulla via spirituale. L'essere
vivente si contamina perché desidera godere dei piaceri della materia. Ma anche
una persona contaminata può diventare pura seguendo Krishna e offrendo a Krishna
il suo lavoro.
I principianti nella coscienza di Krishna hanno la tendenza a lasciarsi andare
dopo un certo tempo e a non impegnarsi più molto, ma per avanzare sul cammino
spirituale bisogna resistere a questa tentazione e continuare ad aumentare lo
sforzo e la devozione."
Michael Grant: La prima volta che sentii parlare dell'iniziazione fu proprio il
giorno prima della cerimonia.
Ero stato molto impegnato con la musica, ed era un pò di tempo che non li
frequentavo.
Stavo camminando per la Seconda Avenue con uno degli iniziandi, e lui mi disse
che l'indomani ci sarebbe stato qualcosa come una cerimonia d'iniziazione.
Gli chiesi di cosa si trattava e lui disse: "Beh, da quello che ho capito vuol
dire che accetti il maestro spirituale come Dio.
Per me era una grossa sorpresa e non sapevo bene come prendere la cosa. Ma non
la presi molto sul serio, e la noncuranza con cui me ne avevano parlato mi fece
supporre che non si trattasse di una cosa molto importante.
Mi chiese così, per curiosità, se volevo partecipare anch'io e prendere
l'iniziazione, e io, con altrettanta noncuranza, risposi, "Beh, penso di si.
Perché no? Proviamo.
Jan, la ragazza di Mike, non si vedeva nella parte di una discepola obbediente,
e l'idea dell'iniziazione la spaventava.
Le piaceva lo Swami, e in particolare le piaceva cucinare con lui. Ma fu Mike a
convincerla, lui andava, e anche lei l'avrebbe seguito.
Carl Yeargens aveva letto qualcosa sull'iniziazione nei suoi libri di filosofia
orientale ed era forse l'unico a sentire che si trattava di un impegno molto
serio.
Fu sorpreso di sentire che Swamiji si era offerto di iniziare dei discepoli, e
non voleva gettarsi nella cosa allo sbaraglio. Sapeva che iniziazione voleva
dire niente rapporti sessuali illeciti, niente intossicanti, niente carne, e un
discepolo iniziato aveva la responsabilità di diffondere agli altri gli
insegnamenti del maestro spirituale.
Carl si sentiva già meno coinvolto da quando lo Swami si era trasferito nella
Seconda Avenue, ma decise di assistere ugualmente all'iniziazione.
Bill Epstein non si era mai dichiarato un discepolo serio. Le iniziazioni erano
un aspetto della scenografia dello Swami, ed egli si sentiva libero di prenderle
sul serio oppure no. Anche se non si sentiva molto serio pensò che sarebbe stato
bello essere iniziato. Avrebbe provato.
James Green pensava di non essere abbastanza puro per prendere l'iniziazione:
"Chi sono io per essere iniziato?" Ma lo Swami gli aveva chiesto di portare
qualcosa al negozio.
"Quando arrivai, sembrava sottinteso che avrei preso l'iniziazione. Allora
pensai, perché no?"
Stanley era ormai attaccatissimo allo Swami e ai suoi seguaci. Chiese a sua
madre il permesso di prendere l'iniziazione, e lei disse che andava bene.
Steve disse che aveva bisogno di tempo per pensarci.
Keith era all'ospedale.
Bruce veniva soltanto da un paio di settimane ed era troppo presto per lui.
Chuck si era preso una settimana di vacanza dalla vita spirituale regolare del
tempio e non sapeva nulla delle iniziazioni.
A nessuno fu chiesto di rasarsi la testa, di tagliarsi i capelli, o di cambiarsi
d'abito. Nessuno offrì a Swamiji il tradizionale guru-daksina, il dono che
solitamente il discepolo offre al maestro spirituale come testimonianza della
sua gratitudine.
Quasi nessuno l'aiutava nelle sue fatiche, e Swamiji dovette occuparsi
personalmente della cucina e degli altri preparativi per l'iniziazione.
Conosceva perfettamente la mentalità dei suoi ragazzi e non cercò di pretendere
nulla da nessuno.
Alcuni degli iniziati non sapevano nemmeno che i quattro principi regolatori -
non mangiare carne, uova e pesce, non prendere intossicanti, non avere rapporti
sessuali illeciti e non fare speculazioni o giochi d'azzardo - erano obbligatori
per tutti.
Lo scoprirono soltanto dopo la cerimonia, quando lo chiesero a Swamiji. Il suo
commento fu: "Sono molto lieto che me lo abbiate chiesto, finalmente."
Sarebbe stato un vero sacrificio vedico, con un fuoco sacro proprio lì, nella
stanza anteriore dell'appartamento di Swamiji.
Al centro della stanza c'era l'arena per il sacrificio: una piattaforma di
mattoni, alta circa otto centimetri e grande un metro quadrato circa, coperta da
un mucchio di terra. La terra veniva dal cortile e i mattoni da un edificio
vicino che era stato smantellato.
Attorno al rialzo di terra c'erano undici banane, burro chiarificato, semi di
sesamo, grani interi di orzo, cinque colori di tinture in polvere e del
combustibile.
Gli undici iniziandi occuparono quello che restava della stanza, seduti l'uno
accanto all'altro attorno all'arena del sacrificio. Dal corridoio gli ospiti
allungavano il collo per curiosare.
Per tutti, eccetto che per lo Swami, si trattava di una cosa nuova e strana, e
ogni fase della cerimonia si svolse secondo le sue istruzioni dirette.
Alcuni dei ragazzi fecero un pasticcio cercando di mettersi il tilaka vaisnava
sulla fronte, e Swamiji aveva pazientemente fatto passare il dito sulla loro
fronte, segnando una bella "V" sottile.
Si sedette davanti al mucchio di terra, guardando la sua congregazione. Non
sembravano molto diversi da qualsiasi altro gruppo di giovani hippy del Lower
East Side, e sembravano riuniti per un qualsiasi altro genere di incontro
spirituale, culturale, musicale, o qualsiasi altra cosa.
Alcuni erano lì semplicemente per vedere che cosa sarebbe successo. Alcuni erano
profondamente devoti allo Swami. Ma tutti erano curiosi.
Swamiji aveva chiesto loro di cantare piano il mantra Hare Krishna per tutta la
durata della cerimonia, e ora il canto era diventato un ronzio continuo che
accompagnava i suoi misteriosi movimenti di sacerdote capo del rito vedico.
Cominciò accendendo una dozzina di bastoncini d'incenso. Poi eseguì. la
purificazione con l'acqua. Prese un cucchiaino nella mano sinistra e attingendo
da una tazza versò tre gocce d'acqua nella mano destra e le aspirò.
Ripeté l'operazione tre volte. La quarta volta non bevve l'acqua, ma la gettò
sul pavimento dietro di sé. Poi passò il cucchiaino e la tazza agli iniziandi,
che cercarono di imitare quanto aveva fatto lui poco prima. Quando qualcuno di
loro metteva l'acqua nella mano sbagliata o la beveva nel modo sbagliato,
Swamiji lo correggeva pazientemente.
"Ora", disse, "ripetete con me." E li fece recitare, una parola alla volta, un
mantra vedico per la purificazione:
om apavitrah pavitro va
sarvavastham gato 'pi va
yah smaret pundarikaksam
sa bahyabhyantarah sucih
sri-visnuh sri-visnuh sri-visnuh
Gli iniziandi cercarono di fare del loro meglio per seguire la sua pronuncia,
recitando le parole che non avevano mai sentito prima.
Poi diede la traduzione: "Purificato o non purificato, anche se è passato
attraverso tutte le situazioni, chiunque ricordi Dio, la Persona Suprema, che ha
occhi simili al fiore di loto, viene purificato all'interno e all'esterno."
Tre volte ripeté la purificazione con l'acqua, e il brusio del mantra Hare
Krishna riempì la stanza mentre la tazza passava da un ragazzo all'altro e
tornava a lui, e tre volte guidò il canto del mantra: om apavitrah...
Poi alzò una mano, e mentre il brusio del canto si spegneva nel silenzio,
cominciò il discorso.
Dopo il discorso, Swamiji chiese ai devoti di venire avanti a uno a uno per
ricevere da lui il japa, e cominciò a cantare sui loro japa, Hare Krishna, Hare
Krishna, Krishna Krishna, Hare Hare / Hare Rama, Hare Rama, Rama Rama, Hare
Hare. Tutti recitavano il mantra, e il brusio riempì di nuovo la stanza.
Dopo aver finito un giro, chiamava il proprietario del japa e sollevava il
rosario per mostrare come si faceva. Poi annunciava il nome spirituale
dell'iniziato, e il discepolo riprendeva il suo japa, s'inchinava a terra e
recitava:
nama om visnu-padaya Krishna-presthaya bhu-tale
srimate Bhaktivedanta-svamin iti namine
"Offro i miei omaggi a Sua Divina Grazia A. C. Bhaktivedanta Swami, che è molto
caro a Sri Krishna perché ha preso rifugio ai Suoi piedi di loto."
C'erano undici iniziati e undici japa, e la recitazione del mantra durò più di
un'ora. Swamiji diede a ogni ragazzo una collana di perline di tulasi e disse
che erano come i collari per i cani, per indicare che il devoto è il cane di
Krishna.
Wally ricevette il suo japa e il suo nuovo nome (Umapati) e ritornò al suo
posto, accanto a Howard.
Disse: "E' meraviglioso. Ricevere il japa è stato meraviglioso."
Uno per uno, ogni iniziato ricevette il suo japa e il suo nome spirituale.
Howard diventò Hayagriva, Wally diventò Umapati, Bill diventò Ravindra-svarupa,
Carl diventò Karlapati, James diventò Jagannatha, Mike diventò Mukunda, Jan
prese il nome di Janaki, Roy diventò Raya Rama, e Stanley divento Stryadhisa.
Un altro Stanley, un ragazzo di Brooklyn che aveva un lavoro regolare, e Janos,
che studiava all'università di Montreal, avevano con lo Swami una relazione
abbastanza periferica, e comparvero sulla scena quella sera per caso e furono
iniziati con gli altri con i nomi di Satyavrata e Janardana.
Poi Swamiji cominciò il sacrificio del fuoco spruzzando le tinte attraverso il
monticello di terra che gli stava davanti.
Con rapita attenzione i ragazzi seguivano tutti i suoi misteriosi movimenti,
mentre lui raccoglieva i ramoscelli e i pezzetti di legno, li immergeva nel
burro chiarificato e dopo averli accesi con la fiamma di una candela li
disponeva in un piccolo falò al centro del monticello di terra.
Prese una ciotola e vi mescolò i semi di sesamo, l'orzo e il burro chiarificato,
poi passò la ciotola ai ragazzi. Ogni nuovo discepolo prese una manciata della
mistura da offrire al fuoco.
Poi Swamiji cominciò a recitare preghiere in sanscrito e chiese a tutti di
ripeterle; ogni preghiera finiva con la parola svaha, cantata tre volte.
E allo svaha gli iniziati lanciavano nel fuoco un po' della mistura di sesamo e
orzo. Swamiji continuava a versare burro, ammucchiare altra legna e cantare
altre preghiere, finché tutto il monticello andò in fiamme. Le preghiere
continuavano, veniva versato altro burro, il fuoco diventava sempre più grande e
la stanza sempre più calda.
Dopo quindici o venti minuti, Swamiji chiese a ognuno degli iniziati di farsi
avanti e mettere la banana nel fuoco. Con undici banane ammucchiate sopra il
fuoco, le fiamme cominciarono a spegnersi e il fumo a ispessirsi.
Alcuni degli iniziati si alzarono e fuggirono tossendo nell'altra stanza, e gli
ospiti indietreggiarono nel corridoio. Ma Swamiji continuò a versare nel fuoco
il resto del burro e dei semi. "Questo genere di fumo non è spiacevole", disse.
"Altri tipi di fumo sono fastidiosi, ma questo no."
Anche se tutti avevano gli occhi lacrimanti per l'irritazione, chiese di tenere
le finestre chiuse. In questo modo la maggior parte del fumo rimase all'interno
dell'appartamento, e nessuno dei vicini ebbe a lamentarsi.
Swamiji fece un grande sorriso, si alzò in piedi davanti al fuoco del
sacrificio, l'ardente lingua di Visnu, e cominciò a battere le mani cantando
Hare Krishna. Mettendo un piede davanti all'altro e dondolandosi da una parte
all'altra cominciò a danzare davanti al fuoco.
I suoi discepoli lo seguirono nel canto e nella danza, e il fumo si dissolse
piano piano. Disse a ogni discepolo di appoggiare il suo japa ai piedi di Sri
Caitanya, raffigurato nel quadro del Panca-tattva che stava sul tavolo, poi
finalmente fece aprire le finestre.
La cerimonia era terminata e nell'appartamento l'aria si stava facendo sempre
più limpida.
Swamiji cominciò a ridere: "C'era tanto fumo che ho pensato che avrebbero
chiamato i pompieri." Swamiji era felice.
Fece distribuire il prasada a tutti i devoti e agli ospiti. Il fuoco, le
preghiere, i voti e il fatto che tutti cantassero Hare Krishna avevano creato
un'atmosfera propizia. La coscienza di Krishna stava crescendo. Adesso c'erano
devoti iniziati anche in Occidente. Alla fine quasi tutti i discepoli se ne
tornarono a casa propria, lasciando il loro maestro spirituale a fare le pulizie
dopo la cerimonia d'iniziazione. Tre giorni dopo Swamiji celebrò il primo
matrimonio tra due suoi discepoli - Mukunda e Janaki - con una cerimonia simile.
Era soddisfatto. Aveva introdotto alcuni degli elementi più importanti della sua
missione per la coscienza di Krishna. Aveva discepoli iniziati, li aveva fatti
sposare e aveva offerto agli ospiti una festa di Krishna-prasada. "Se ne avessi
la possibilità", disse ai suoi seguaci, "farei un grande festival come questo
ogni giorno.”
A Radhasthami, il giorno dell'apparizione di Srimati Radharani, l'eterna
compagna di Sri Krishna, Prabhupada tenne la seconda cerimonia d'iniziazione.
Keith diventò Kirtanananda, Steve diventò Satsvarupa, Bruce diventò Brahmananda,
e Chuck diventò Acyutananda.
Fu un altro giorno di festa, con tanto di sacrificio del fuoco nella stanza di
Prabhupada, e un grande prasada.
Allen Ginsberg viveva non lontano da lì, a East Tenth Street. Un giorno con la
posta ricevette un insolito invito:
Pratica la vibrazione sonora trascendentale,
Hare Krishna, Hare Krishna, Krishna Krishna, Hare Hare
Hare Rama, Hare Rama, Rama Rama, Hare Hare.
Questo canto spazzerà via la polvere dallo, specchio della mente.
Associazione Internazionale per la Coscienza di Krishna
Incontri alle 7 del mattino ogni giorno
e tutti i lunedì, mercoledì e venerdì alle 7 di sera.
Sei cordialmente invitato a partecipare e a portare anche i tuoi amici.
Swamjii aveva chiesto ai ragazzi di distribuire i volantini in tutta la zona.
Una sera, pochi giorni dopo aver ricevuto l'invito, Allen Ginsberg e il suo
compagno di stanza, Peter Orlovsky, arrivarono al negozietto con un furgoncino
Volkswagen.
Allen era stato affascinato dal mantra Hare Krishna diversi anni prima, quando
l'aveva incontrato per la prima volta al Kumbha-mela di Allahabad, in India, e
da allora l'aveva sempre cantato.
I devoti erano impressionati nel vedere il famoso autore di Howl (L’Urlo), la
più grande figura della beat generation, che entrava nel loro umile negozietto.
La sua celebrazione del libero amore, della marijuana, dell'LSD, le sue pretese
visioni spirituali indotte dagli stupefacenti e applicate agli aspetti della
realtà quotidiana, le sue idee politiche, la sua esplorazione della pazzia,
della rivolta, della nudità e i suoi tentativi di armonizzare anime a lui simili
avevano avuto una grandissima influenza sulla mente dei giovani americani,
specialmente di quelli che vivevano nella Lower East Side.
Sebbene la borghesia lo considerasse un personaggio scandaloso e squinternato,
era a modo suo una figura di fama mondiale, la personalità più famosa che fosse
mai arrivata finora al negozietto.
Allen e Peter erano venuti per il kirtana, ma non era ancora ora, Swamiji non
era ancora sceso.
Avevano portato un regalo per i devoti: un nuovo harmonium.
"E' per il kirtana", disse Allen. "Una piccola donazione."
Allen si fermò sull'entrata del negozietto a parlare con Hayagriva e gli
raccontò che aveva cantato Hare Krishna per tutto il mondo, alle marce della
pace, agli incontri di poesia, a una processione a Praga, a una riunione di
scrittori a Mosca.
"Un kirtana laico", disse Allen, "ma pur sempre Hare Krishna."
Poi entrò Prabhupada. Allen e Peter si sedettero insieme alla congregazione e si
unirono al kirtana. Allen suonava l'harmonium.
Swamiji mostrò il suo apprezzamento annuendo con la testa e unendo le palme
delle mani in segno di saluto.
Dopo il kirtana ebbero un breve colloquio, poi Swamiji tornò al suo
appartamento. Allen disse ad Hayagriva che gli sarebbe piaciuto tornare un'altra
volta per parlare con lo Swami, così Hayagriva lo invitò a venire il giorno dopo
per un pranzo di prasada.
Non pensi che Swamiji sia un po' troppo esoterico per New York?" chiese Allen.
Hayagriva rifletté un attimo. "Forse", rispose.
Poi Hayagriva chiese ad Allen se poteva aiutare Swamiji, perché il suo visto
sarebbe scaduto molto presto. Era entrato in America con un visto per un
soggiorno di due mesi, e ormai erano diverse volte che si faceva estendere il
visto, ogni due mesi.
Era già passato un anno, e l'ultima volta che aveva chiesto un'estensione del
visto gliel'avevano rifiutata. "Abbiamo bisogno di un avvocato esperto in
pratiche d'immigrazione", disse Hayagriva. "Ci penso io", lo rassicurò Allen.
Il mattino dopo Allen Ginsberg ritornò con un assegno e un altro harmonium.
Salì nell'appartamento di Prabhupada e gli fece sentire la sua melodia per
cantare Hare Krishna, poi rimase a parlare con Swamiji.
Allen: Mi sentivo un pò in imbarazzo perché non sapevo da dove veniva. Avevo
quell'harmonium e volevo lasciarlo in donazione, e avevo anche un po' di denaro.
Mi sentivo un pò in imbarazzo perché non sapevo da dove veniva. Avevo
quell'harmonium e volevo lasciarlo in donazione, e avevo anche un po' di denaro.
Pensavo che la sua presenza qui a spiegare il mantra Hare Krishna, fosse un
grande avvenimento. Una specie di giustificazione per il mio canto. Hare
Krishna, fosse un grande avvenimento. Una specie di giustificazione per il mio
canto.
Sapevo quello che stavo facendo, ma non ero in grado di dare qualche spiegazione
teologica a chi avesse voluto saperne di più, ma ecco che era arrivato qualcuno
che poteva farlo.
Ora potevo andarmene in giro a cantare Hare Krishna e se qualcuno avesse voluto
sapere che cosa voleva dire, potevo semplicemente dirgli di andare a farselo
spiegare da Swami Bhaktivedanta.
Se qualcuno avesse voluto addentrarsi nei dettagli tecnici e in tutta la sua
storia, potevo mandarlo da lui.
Mi spiegò del suo maestro, di Caitanya e dell'intera linea che risaliva ad un
lontanissimo passato. La sua testa era piena di tante cose e di quello che stava
facendo.
Stava già lavorando alle sue traduzioni.
Sembrava che rimanesse sempre li, seduto, giorno dopo giorno, notte dopo notte.
E penso che avesse forse una o due persone che l'aiutavano.
Swamiji fu molto cordiale con Allen. Citando un verso della Bhagavad-gita, in
cui Krishna dice che le masse seguono l'esempio che i grandi uomini stabiliscono
con il loro comportamento, chiese ad Allen di continuare a cantare Hare Krishna
in ogni occasione, in modo che altri seguissero il suo esempio.
Gli raccontò di come Sri Caitanya aveva organizzato il primo movimento di
disobbedienza civile in India, guidando una marcia di protesta di sankirtana
contro il governo musulmano.
Allen era affascinato. Gli piaceva parlare con lo Swami.
Allen: La cosa più importante, che andava molto al di là e superava tutte le
nostre differenze, era il senso di dolcezza che emanava, una dolcezza personale,
libera da ogni egoismo, come una devozione totale. La cosa più importante, che
andava molto al di là e superava tutte le nostre differenze, era il senso di
dolcezza che emanava, una dolcezza personale, libera da ogni egoismo, come una
devozione totale.
È quello che mi ha sempre conquistato, nonostante tutte le mie domande
intellettuali, o i dubbi, o anche i miei cinici punti di vista dettati dall'ego.
In sua presenza si sentiva una specie d'incantesimo personale, dovuto alla sua
totale dedizione, che spazzava via ogni conflitto. Anche se non ero d'accordo
con lui, ero sempre contento di stargli vicino.
Swamiji viveva qui, proprio nel mezzo della controcultura degli allucinogeni, in
una zona dove i giovani stavano cercando quasi disperatamente di alterare la
propria coscienza, o con qualche droga o con qualche altro mezzo, quello che
riuscivano a trovare.
Swamiji li rassicurava che potevano facilmente raggiungere la più alta coscienza
possibile, quella che desideravano, cantando Hare Krishna.
Era inevitabile che nello spiegare la coscienza di Krishna dovesse fare
allusione all'esperienza degli allucinogeni, anche se era solo per mostrare che
si trattava di due strade opposte.
Conosceva bene gli argomenti di quei "sadhu" indiani che fumavano ganja e
hashish con la scusa di aiutare la meditazione.
E ancor prima che partisse dall'India, i turisti hippy erano diventati
personaggi comuni nelle strade di Delhi. Gli hippy erano attratti dall'India,
per la sua cultura mistica e il facile accesso alla droga.
Là naturalmente incontravano i loro "colleghi" indiani, che li rassicuravano che
prendere hashish era spirituale. E così se ne tornavano in America a diffondere
il loro equivoco sulla cultura spirituale dell'India.
Era un modo di vivere. I negozi della zona vendevano tutto il necessario.
Marijuana, LSD, peyote, cocaina e droghe pesanti, come eroina e barbiturici, si
potevano acquistare facilmente per strada e nei giardini pubblici.
I giornali underground riportavano importanti notizie sul panorama della droga,
pubblicavano i fumetti di Capitan Fuori, e giochi di parole crociate che solo i
vecchi freak potevano risolvere.
Swamiji doveva insegnare che la coscienza di Krishna era superiore ai trip con
I'LSD.
"Siete convinti che prendere l'LSD possa produrre l'estasi e una coscienza più
alta?" chiese una volta ai ragazzi che erano venuti nel negozietto per
ascoltarlo.
"Allora immaginate una stanza piena di LSD. La coscienza di Krishna è così."
Molti venivano a chiedere ai discepoli dello Swami: "Ma riuscite a 'sballare'
con questo?"
E i devoti rispondevano: "Oh, certamente. Puoi 'sballare' semplicemente
cantando. Perché non provi anche tu?"
I più famosi esperimenti con l'LSD di quei giorni erano forse quelli di Timothy
Leary e Richard Alpert, due insegnanti di psicologia di Harward che avevano
studiato gli effetti della droga e pubblicato i risultati delle loro ricerche
sulle riviste professionali, glorificando l'uso dell'LSD per la realizzazione
del sé e la soddisfazione personale.
Dopo essere stato espulso da Harward, Timothy Leary continuò per la sua strada
fino a diventare il sacerdote nazionale dell'LSD, e per qualche tempo guidò una
comune LSD a Millbrook, nello Stato di New York.
Quando quelli della comune di Millbrook sentirono parlare dello Swami del Lower
East Side che guidava i suoi seguaci in un canto che li portava in uno stato di
coscienza superiore, cominciarono a frequentare il negozietto.
Una notte, un gruppo di circa dieci hippy dalla comune di Millbrook venne al
kirtana dello Swami.
Tutti cantarono (non tanto per adorare Krishna quanto per vedere che tipo di
effetti poteva produrre il canto), e dopo la lezione uno dei capi di Millbrook
fece una domanda sugli allucinogeni.
Prabhupada rispose che la droga non era necessaria per la vita spirituale, non
poteva produrre una coscienza spirituale, e tutte le visioni religiose dovute al
consumo di stupefacenti erano semplici allucinazioni.
Realizzare Dio non era così facile, così a buon mercato: non era sufficiente
prendere una pillola o fumare qualcosa.
Cantare Hare Krishna, disse, era un metodo per purificarsi, per riportare alla
luce la propria coscienza pura. Prendere allucinogeni non avrebbe fatto altro
che aumentare lo strato di copertura della coscienza e ostacolare la
realizzazione del sé.
"Ma tu hai mai preso l'LSD?" La domanda era diventata una sfida.
"No", rispose Swamiji. "Non ho mai preso niente di queste cose, nemmeno
sigarette o tè."
"Se non l'hai mai provato, come fai a dire cos'è?"
Quelli di Millbrook si guardarono attorno, sorridendo. Due o tre scoppiarono
persino a ridere e schioccarono le dita, pensando che lo Swami fosse stato
sistemato.
"Io non l'ho mai provato", rispose maestosamente Swamiji dalla sua piattaforma.
"Ma i miei discepoli hanno preso tutte queste cose, marijuana, LSD, molte volte,
e le hanno lasciate. Puoi fartelo dire da loro.
Hayagriva, puoi parlare tu." E Hayagriva si sollevò un poco, raddrizzando la
schiena, per esporre con la sua voce stentorea il meglio della sua oratoria.
"Beh, non importa quanto riesci ad andare in alto con un acido, alla fine arrivi
alla vetta e devi tornare giù. Proprio come viaggiare nello spazio con un razzo.
(Questo era uno degli esempi preferiti dello Swami.)
Il tuo razzo può allontanarsi molto dalla Terra e salire nello spazio, giorno
dopo giorno, ma non può continuare a viaggiare per sempre. A un certo punto deve
tornare giù.
Con l'LSD tu hai l'impressione di andare in alto, ma alla fine c'è sempre il
down. Questa non è coscienza spirituale. Quando riesci veramente a raggiungere
la coscienza spirituale, la coscienza di Krishna, resti in alto.
Poiché raggiungi Krishna, non sei più costretto a tornare indietro. Puoi restare
in alto per sempre."
Swamiji era seduto nella sua stanza con Hayagriva, Umapati e altri discepoli.
L'incontro della sera era appena terminato, e i visitatori della comune di
Millbrook se n'erano andati. "La coscienza di Krishna è così bella, Swamiji",
disse Umapati. "Vai sempre più su e non sei costretto a tornare giù."
Swamiji sorrise. "Sì, hai ragione."
"Non si torna più giù", disse Umapati ridendo, e anche gli altri cominciarono a
ridere. Alcuni si misero a battere le mani, ripetendo: "Non si torna più giù."
La conversazione ispirò Hayagriva e Umapati a produrre un nuovo volantino:
RIMANETE IN ALTO PER SEMPRE!
Non ci saranno più "down"
Praticate la coscienza di Krishna
Espandete la vostra coscienza con la
*VIBRAZIONE SONORA TRASCENDENTALE*
HARE KRISHNA HARE KRISHNA
KRISHNA KRISHNA HARE HARE
HARE RAMA HARE RAMA
RAMA RAMA HARE HARE
Il volantino continuava a glorificare la coscienza di Krishna come il migliore
tra tutti i sistemi per l'espansione della coscienza. C'erano frasi come
"eliminate ogni down e sintonizzatevi"', e condannava "l'uso di metodi
artificiali per la realizzazione del sé e l'espansione della coscienza."
Qualcuno obiettò che il volantino seguiva troppo lo stile hippy, ma Swamiji
disse che andava bene.
Ottobre 1966
Tompkins Square Park era il parco del Lower East Side.
Era delimitato a sud dalla Settima Strada, con i suoi edifici di pietra marrone,
alti quattro o cinque piani.
A nord c'era la Decima Strada, con altre case di pietra marrone, ma meglio
tenute, e il vecchissimo, piccolo edificio della sala della Biblioteca Comunale
di Tompkins Square Park.
Sulla Avenue B, sul lato est del parco, c'era la chiesa di Santa Brigida,
costruita nel 1848, quando la zona era abitata solo da Irlandesi. La chiesa, la
scuola e la canonica occupavano quasi tutto l'isolato.
Sul lato ovest del parco c'era l'Avenue A, con la sua fila di vecchi negozi di
caramelle che vendevano giornali, riviste, sigarette e zabaione al seltz al
banco. C'era anche qualche bar, alcune drogherie e un paio di ristoranti slavi
specializzati in minestre di verdure a buon prezzo, che mettevano ucraini e
hippy l'uno accanto all'altro per provvedere al sostentamento del corpo.
I quattro ettari del parco erano disseminati di molti alberi, ma almeno la metà
della sua superficie era asfaltata. Una pesante rete metallica, alta un metro e
mezzo, costeggiava i viali e proteggeva il tappeto erboso.
La rete, i molti viali e le numerose entrate del parco davano l'impressione di
un labirinto.
Faceva ancora bel tempo, era domenica, e il parco era pieno di gente. Quasi
tutto lo spazio sulle panchine che costeggiavano i viali era occupato.
C'erano molte persone anziane, per lo più ucraini, infagottati di abiti e
maglioni completamente fuori moda, anche se faceva ancora abbastanza caldo, e
stavano seduti insieme a gruppi a chiacchierare.
Nel parco c'erano anche molti bambini, soprattutto figli di portoricani e di
gente di colore, ma si vedevano anche biondi ragazzini dei bassifondi con la
faccia dura, che correvano qua e là in bicicletta o giocavano a pallone o a
frisbee.
I campi di pallacanestro e di pallavolo erano occupati da ragazzi un po’ più
grandi. E come sempre c'erano moltissimi cani sciolti che correvano dappertutto.
Un chioschetto di marmo (quattro colonne e un tetto con una fontanella sotto)
era un ricordo di altri tempi 1891, secondo l'iscrizione. Ai quattro lati
portava le parole
SPERANZA, FEDE, CARITÀ e TEMPERANZA.
Ma qualcuno aveva spruzzato l'intera costruzione con vernice nera, tracciando
rozzi disegni e nomi e iniziali praticamente illeggibili.
Oggi, una panchina era stata occupata da diversi percussionisti di conga e
bongo, e l'intero parco pulsava dei loro ritmi prepotenti.
Poi c'erano gli hippy, differenti da tutti gli altri. I barbuti ragazzi della
nuova Bohème, con le loro ragazze dai lunghi capelli che portavano vecchi
blue-jeans erano ancora personaggi insoliti.
Anche nel crogiolo del Lower East Side la loro presenza creava una certa
tensione.
Venivano da famiglie della media borghesia, perciò non erano stati spinti nei
bassifondi da necessità economiche. Questo fatto creava conflitti nelle loro
relazioni con gli altri immigrati, più poveri.
E la ben nota tendenza degli hippy verso gli allucinogeni, la loro rivolta
contro la famiglia e le ricchezze materiali, e il loro impegno nell'avanguardia
li rendevano talvolta una minoranza disprezzata nella zona, l'oggetto del
sarcasmo dei vicini.
Ma gli hippy volevano soltanto farsi i fatti propri e occuparsi della loro
rivoluzione di "pace e amore", perciò in genere erano tollerati, anche se non
apprezzati.
Tra i giovani hippy di Tompkins Square Park c'erano vari gruppi. Alcuni erano
stati compagni di scuola e prendevano insieme le stesse droghe, o si trovavano
d’accordo su una particolare filosofia o arte, letteratura, linea politica o
metafisica.
C'erano gli innamorati. C'erano gruppi che se andavano in giro insieme per
ragioni indecifrabili, eccetto la voglia comune di farsi i fatti propri.
Ce n'erano anche altri, che vivevano come eremiti, qualche solitario che se ne
stava seduto su una panchina del parco, analizzando gli effetti della cocaina,
fissando lo sguardo sulle foglie verdi che stranamente arrugginivano sugli
alberi e al cielo blu sopra le case, e poi giù, alla spazzatura che stava ai
suoi piedi, seguendo docile la mente, dalla paura all'illuminazione, al
disgusto, all'allucinazione e così via, finché l'effetto cominciava a svanire, e
lui tornava di nuovo un comune estraneo.
A volte rimanevano svegli tutta la notte, a "spaziare" nel parco, finché alla
fine, alle prime luci del mattino, si allungavano sulla loro panchina per
dormire.
Gli hippy invadevano il parco specialmente di domenica. Se non altro passavano
per il parco mentre andavano a St. Mark, a Greenwich Village, o alla
metropolitana di Lexington Avenue ad Astor Place, o a quella di IND tra Houston
e la Seconda Avenue, o a prendere un autobus che andava in centro, sulla Prima
Avenue, oppure uno che andava verso la periferia, sulla Seconda, oppure che
percorreva la circonvallazione, sulla Nona Avenue.
Alcuni andavano al parco semplicemente per uscire di casa, e sedersi insieme
all'aperto, per "sballare", parlare o camminare nel dedalo dei viali del parco.
Ma sebbene gli hippy fossero spinti da diversi interessi e diverse motivazioni,
il Lower East Side era una parte essenziale della loro mistica. Non era
semplicemente una sporca zona di bassifondi; era il posto migliore del mondo per
condurre i loro esperimenti sulla coscienza.
Con tutta la sua sporcizia, la sua carica di violenza e la vita da ghetto delle
case di pietra scura, il Lower East Side era ancora il fronte della rivoluzione
nell'espansione della mente.
Se non vivevi lì, o non prendevi allucinogeni o marijuana, o se non eri per lo
meno interessato a una ricerca intellettuale di una libera religione, non eri un
illuminato e non stavi partecipando all'evoluzione più d'avanguardia
dell'esistenza umana nell'America ordinaria, materialista, perbenista, che
portava l'unione tra l'eclettico gruppo di hippy del Lower East Side.
In questo scenario caotico entrò Swamiji con i suoi seguaci, e si sedette per
fare un kirtana.
Tre o quattro devoti erano andati avanti prima di lui, avevano scelto un'area
libera del parco, avevano steso il tappeto orientale, donazione di Robert
Nelson, e si erano seduti cominciando a suonare i karatala e a cantare Hare
Krishna.
Immediatamente alcuni ragazzini si erano avvicinati sulle loro bici, e frenando
appena fuori del tappeto, erano rimasti lì, sulla bici, appoggiando i piedi a
terra, a fissarli in modo curioso e irriverente. Altri passanti si avvicinarono
per sentire.
Nel frattempo Swamiji, accompagnato da una mezza dozzina di discepoli, stava
arrivando a piedi attraverso gli otto isolati dal negozietto.
Brahmananda portava l'harmonium e la mrdanga dello Swami. Kirtanananda, che alla
richiesta dello Swami si era rasato la testa e si era vestito di ampi drappi
color giallo canarino, era un altro oggetto di curiosità.
Alcune auto rallentavano per dare un'occhiata e i loro passeggeri sporgevano
fuori la testa dai finestrini, fissando con tanto d'occhi gli abiti che per loro
erano tanto stravaganti da sembrare oltraggiosi, e le teste rasate.
Mentre il gruppo passava davanti a qualche negozio, gli avventori si davano di
gomito l'un l'altro per indicare lo spettacolo. La gente si affacciava alle
finestre delle case, pensando che lo Swami e i suoi seguaci facessero parte di
qualche parata.
In particolare, i giovani portoricani non riuscivano a trattenersi e la loro
reazione era esplosiva.
"Ehi, Buddha!" li schernivano. "Ehi, vi siete dimenticati di togliere il
pigiama!" E cacciavano strilli acuti imitando gli urli di guerra degli Indiani
che avevano visto nei film western di Hollywood.
"Ehi, ma sono Arabi!" esclamò un provocatore, e cominciò a imitare quella che
lui credeva una danza orientale. Nessuno nella strada sapeva qualcosa della
coscienza di Krishna, e nemmeno della cultura o delle tradizioni indù.
Per loro, quelli che circondavano lo Swami non erano che un mucchio di hippy
mezzi matti che si mettevano in mostra per farsi notare. Ma non sapevano cosa
pensare dello Swami. Era differente.
Comunque, mantenevano anche verso di lui un sentimento di sospetto. Altri,
invece, come Irving Halpern, un veterano del Lower East Side, sentivano una
certa simpatia per questo straniero che "sembrava una persona molto dignitosa
che stava diffondendo una missione di pace."
Irving Halpern: Molti avevano strane idee di che cosa fosse uno swami. Come se
si aspettassero di vedere tutto a un tratto della gente che si sdraiava su
materassini di chiodi e altre simili assurdità. Ma ecco che un essere dignitoso,
dolce, pacifico, gentile, con evidenti buone intenzioni, compariva nel mezzo
dell'ostilità.. Come se si aspettassero di vedere tutto a un tratto della gente
che si sdraiava su materassini di chiodi e altre simili assurdità. Ma ecco che
un essere dignitoso, dolce, pacifico, gentile, con evidenti buone intenzioni,
compariva nel mezzo dell'ostilità.
"hippy!"
"Che cosa sono, comunisti?"
Mentre i giovani schernivano, le persone anziane e di mezza età scuotevano la
testa o li fissavano con occhi spalancati, in modo freddo e ostile.
La via per il parco fu costellata di bestemmie, battute offensive e tensione, ma
nessuna violenza.
I vari gruppi etnici della zona conclusero che quel giorno Swamiji e i suoi
seguaci erano scesi in strada nei loro costumi esotici per ridere un pò, giusto
per sollevare un pò di confusione e farsi notare per la loro stravaganza.
Erano convinti che la loro reazione fosse del tutto naturale per qualunque
normale e rispettabile abitante dei bassifondi americani.
Fu dunque un'avventura per il gruppo raggiungere il parco. Ma Swamiji non era
turbato. "Che dicono?" chiese un paio di volte, e Brahmananda glielo spiegò.
Swamiji aveva un modo tutto suo di camminare a testa alta, con il mento in su.
Questo gli dava un aspetto aristocratico e deciso.
La sua visione era spirituale, vedeva tutti come anime spirituali e sapeva che
tutto era sotto il controllo di Krishna. Ma a parte quello, anche dal punto di
vista materiale non aveva paura del pandemonio della città. Dopo tutto, era un
"veterano" di Calcutta.
Il kirtana durava già da dieci minuti quando Swamiji arrivò. Togliendosi le sue
scarpe bianche, proprio come se fosse a casa, nel tempio, si sedette sul tappeto
con i suoi seguaci, che ora avevano smesso di cantare e lo guardavano.
Portava un maglione rosa, e attorno alle spalle uno scialle di khadi. Sorrise.
Guardando il suo gruppo, suggerì il ritmo, dicendo, uno... due... tre.
Cominciarono a battere forte le mani, mentre lui continuava a contare. "Uno...
due... tre."
Entrarono i karatala, prima col ritmo sbagliato, ma lui continuava a tenere il
ritmo battendo le mani, e alla fine il gruppo prese il ritmo, battendo senz'arte
le mani e i cembali in un suono lento e regolare.
Cominciò a cantare delle preghiere che nessun altro conosceva. Vande 'ham
sri-guroh sri-yuta-pada-kamalam sri gurun vaisnavams ca.
La sua voce era dolce come l'harmonium, ricca delle sfumature della melodia
bengali. Seduto su un tappeto sotto una grande quercia, cantava le misteriose
preghiere sanscrite.
Nessuno dei suoi seguaci conosceva qualche altro mantra all'infuori di Hare
Krishna; però conoscevano Swamiji. E tenevano il ritmo, ascoltandolo
attentamente, mentre nella strada passavano i camion e i tamburi conga suonavano
lontano.
Mentre lui cantava - sri-rupam sagrajatam - si avvicinarono dei cani, i
ragazzini spalancavano gli occhi, e alcuni provocatori puntavano il dito: "Ehi,
ragazzi, chi è quel prete?" Ma la sua voce era il rifugio al di là delle dualità
contrastante. I ragazzi continuavano a suonare i cembali, mentre lui continuava
a cantare da solo: sri-radha-krishna-padan.
Swamiji cantava delle preghiere in lode del puro amore di Srimati Radharani, la
gopi più amata da Krishna.
Ogni parola, tramandata attraverso i secoli dai compagni intimi di Krishna, era
satura di un profondo significato trascendentale Che solo lui capiva.
Saha-gana-lalita-sri-visakhanvitams ca.
I ragazzi aspettavano che cominciasse a cantare Hare Krishna anche se già
sentirlo cantare era un'emozione abbastanza forte.
Si avvicinarono altre persone e questo era quello che Swamiji voleva. Voleva che
venissero a cantare e a danzare con lui, e adesso questo era anche il desiderio
dei suoi seguaci.
Volevano stare accanto a lui, al suo fianco. Sembrava che questo fosse ciò che
avrebbero fatto per sempre, andare con Swamiji a sedersi e cantare. E lui
sarebbe sempre stato lì e cantare con loro.
Poi cominciò a cantare il mantra, Hare Krishna, Hare Krishna, Krishna Krishna,
Hare Hare / Hare Rama, Hare Rama, Rama Rama, Hare Hare.
Essi risposero, dapprima con qualche incertezza, a bassa voce, ma ecco che di
nuovo lui cantò il mantra, nel ritmo giusto e con voce trionfante. E di nuovo
essi risposero prendendo coraggio, suonando i karatala e battendo le mani -
uno... due... tre.
Di nuovo egli cantò da solo, ed essi concentrarono tutta la loro attenzione su
ogni sua parola, battendo le mani, suonando i piccoli cembali e guardandolo
mentre egli li fissava dalla sua concentrazione interiore, la sua saggezza di
anziano, la sua bhakti e per amore di Swamiji, astraendosi da ogni altra cosa si
unirono a lui nel canto, come una congregazione.
Swamiji suonava il suo piccolo tamburo, tenendolo fermo con la sinistra e
stringendolo al petto, mentre con la destra suonava complicati ritmi di mrdanga.
Hare Krishna, Hare Krishna, Krishna Krishna, Hare Hare / Hare Rama, Hare Rama,
Rama Rama, Hare Hare.
Dopo mezz'ora il kirtana era sempre più forte, e lui ripeteva il mantra,
portandoli tutti con sé, mentre il pubblico interessato si riuniva sempre più
numeroso.
Alcuni hippy si sedettero ai bordi del tappeto, imitando la posizione a gambe
incrociate, e rimasero ad ascoltare, a battere le mani, provando a cantare, e il
piccolo gruppo di Prabhupada con i suoi seguaci cresceva gradualmente, man mano
che arrivavano altre persone. Come sempre, il suo kirtana attraeva i musicisti.
Irving Halpern: Io fabbrico flauti, e suono gli strumenti che faccio. Io
fabbrico flauti, e suono gli strumenti che faccio.
Quando venne lo Swami, mi avvicinai e cominciai a suonare, e lui mi accolse con
gioia.
Ogni volta che un nuovo musicista si univa al gruppo, e suonava la sua prima
nota, lui gli tendeva le mani. Era come se fosse sceso dal podio, pronto a
dirigere la Filarmonica di New York.
Voglio dire, è un gesto che tutti i musicisti conoscono. Puoi capire quando
qualcuno vuole che suoni con loro, quando è contento che suoni anche tu.
Lui aveva questa particolare capacità di comunicare con i musicisti e io l'ho
riconosciuta subito. Mi ha fatto felice.
C'erano sempre molti musicisti solitari li intorno nel parco, e quando sentirono
che potevano suonare con lo Swami che cantava, ed erano i benvenuti,
cominciarono ad avvicinarsi, uno per uno.
Un sassofonista si fece avanti, semplicemente perché c'era buona musica a cui
partecipare. Altri, come Irving Halpern, vedevano il kirtana come qualcosa di
spirituale, con delle buone vibrazioni.
Mentre i musicisti si univano al kirtana, altri passanti venivano coinvolti.
Swamiji cantava e rispondeva nel coro, e molti che si erano uniti adesso
cantavano anche la parte solista, in modo che il canto era diventato un coro
costante.
Nel pomeriggio il gruppo crebbe fino a diventare una folla di un centinaio di
persone, con una dozzina di musicisti, con i loro tamburi conga e bongo, flauti
di bambù e di metallo, armoniche a bocca, tamburini e chitarre che cercavano di
tenere il ritmo con lo Swami.
Vedere lo Swami era una cosa che colpiva.
La fronte era corrugata nello sforzo di cantare più forte, e la sua espressione
intensa.
Sulle tempie, le vene erano diventate gonfie e ben visibili, e la sua mascella
inferiore si protendeva in avanti mentre cantava il suo "Hare Krishna! Hare
Krishna!" perché tutti potessero sentire.
Il suo aspetto era piacevole, ma il suo canto era molto intenso, talvolta anche
faticoso, e tutto in lui era piena concentrazione.
Non era un ritiro di yoga organizzato da qualcun altro o una silenziosa veglia
per la pace, ma un puro incontro di kirtana nello stile personale di
Bhaktivedanta Swami.
Era qualcosa di nuovo, qualcosa a cui tutti potevano partecipare. E la comunità
sembrava accettarlo.
Diventò così popolare che il gelataio si avvicinò per vendere di più. Accanto a
Prabhupada si era seduto un gruppetto di bambini biondi di circa cinque o sei
anni. Un ragazzino polacco era lì in piedi, con occhi sgranati.
Qualcuno cominciò a bruciare dell'incenso grezzo su carboni ardenti contenuti in
un colino metallico, e il dolce fumo s'insinuò tra i flautisti, i percussionisti
e il coro.
Swamiji fece un segno ai suoi discepoli, e loro si alzarono e cominciarono a
danzare. Stryadhisa, alto e magro, con le tasche dei pantaloni rigonfie di
volantini "Rimanete in alto per sempre", alzò le braccia e si mise a danzare.
Accanto a lui, con un maglione nero e il grosso japa intorno al collo, danzava
Acyutananda, con i lunghi capelli ricciuti, quasi crespi, in disordine.
Poi si alzò Brahmananda.
La foto del The New York Times, 10 ottobre 1966: "i fedeli dello Swami cantano
nel parco per trovare l'estasi".
Lui e Acyutananda si misero a danzare uno davanti all'altro, con le braccia
sollevate come nel quadro del kirtana di Sri Caitanya. Alcuni fotografi si
fecero avanti, uscendo dalla folla.
I ragazzi danzavano, dondolandosi da una parte all'altra in una serie di pose
angeliche, con i loro grossi japa di palline rosse attorno al collo. Stavano
facendo "il passo dello Swami".
Brahmananda: Una volta alzato pensavo che avrei dovuto continuare a rimanere in
piedi finché lo Swami continuava a suonare il tamburo. Sarebbe un'offesa,
pensavo, sedersi mentre lui sta ancora suonando. Cosi rimasi a danzare per un
’ora.
Swamiji fece un gesto di apprezzamento con un movimento della testa tipicamente
indiano, poi alzò le braccia, invitando anche altri ad unirsi alla danza.
Altri discepoli cominciarono a danzare, e anche qualche hippy si alzò per
provare.
Swamiji voleva che tutti cantassero e danzassero nel sankirtana. La danza era un
tranquillo ondeggiare di piedi nudi sul tappeto, le braccia erano alzate e le
mani aperte, tese al cielo che s’intravedeva in mezzo ai rami degli alberi
d'autunno.
Qua e là nella folla diverse persone cantavano sperimentando un'estasi privata:
una ragazza con gli occhi chiusi suonava dei piccoli cembali, e mentre cantava
scuoteva pian piano la testa, come immersa in un sogno.
Un'anziana signora polacca col viso segnato dalle rughe di una lunga vita di
difficoltà, e con una babushka attorno alla testa, fissava la ragazza con
un'aria incredula.
Gruppi di vecchiette con fazzoletti in testa, alcune con occhiali da sole, erano
sparsi tra la folla, a parlare animatamente e a indicarsi l'un l'altra gli
spettacoli più interessanti del kirtana.
Kirtanananda era l’unico in dhoti e sembrava la versione giovane di Prabhupada.
Il sole di quel pomeriggio d'autunno illuminava dolcemente il gruppo, che
appariva come sotto le luci di una ribalta, ma con uno splendore dorato, e
lunghe e fresche ombre.
L’harmonium era un sottofondo costante, e un ragazzo con una giacca di stile
militare improvvisò delle creazioni fuori tono sul suo flauto di legno.
Eppure l'insieme dei suoni si fondeva in un'unica armonia, e la voce di Swamiji
emergeva tra i toni confusi di tutti i musicisti. Andò avanti per ore.
Prabhupada teneva la testa e le spalle diritte, sebbene alla fine di ogni verso
del mantra si fermasse un attimo, e talvolta si stringeva nelle spalle prima di
partire con il verso successivo.
I suoi discepoli gli stavano accanto, seduti sullo stesso tappeto, e nei loro
occhi appariva un'estasi religiosa. Alla fine si fermò.
Si alzò subito in piedi, e loro capirono che stava per fare un discorso.
Erano le quattro, e il tiepido sole d'autunno splendeva ancora sul parco.
L'atmosfera era tranquilla e il pubblico attento, ancora immerso nella dolcezza
della concentrazione sul mantra.
Cominciò il suo discorso ringraziando tutti per aver partecipato al kirtana. Il
canto del mantra Hare Krishna, disse, era stato introdotto cinquecento anni
prima nel Bengala occidentale da Caitanya Mahaprabhu.
Hare significa "energia del Signore", Krishna è il Signore stesso, e anche Rama
è un nome del Signore Supremo, che significa "il piacere più alto".
I discepoli erano seduti ai suoi piedi, intenti ad ascoltare.
Raya Rama cercava di guardare Swamiji facendosi schermo con la mano contro il
sole, e Kirtanananda aveva la testa inclinata da una parte, come un uccellino
che ascolta la terra.
Swamiji stava dritto in piedi davanti alla grande quercia, con le mani unite in
un gesto tranquille adatto a un oratore, coperto con grazia dai suoi leggeri
abiti color zafferano.
L'albero dietro di lui sembrava essere stato messo lì apposta per fargli da
sfondo, e la luce del sole disegnava ombre di foglie contro il tronco.
Di fianco a lui, in lontananza, s'intravedeva tra gli alberi il campanile di
Santa Brigida. Alla sua destra c'era una signora di mezza età, piuttosto
tarchiata, con un abito e una pettinatura che erano fuori moda negli Stati Uniti
da almeno venticinque anni.
Alla sinistra una spavalda ragazza hippy con dei jeans stretti, e dietro di lei,
un ragazzo di colore con un maglione nero, che teneva le braccia incrociate.
Accanto a lui c'era un giovane padre con un bambino in braccio, poi un giovane e
barbuto sadhu di strada, che portava i capelli con la riga in mezzo, e due
normali borghesi con i capelli corti e le loro giovani compagne.
Molte persone della folla, sebbene fossero abbastanza vicine, si distraevano
spesso, e ogni tanto guardavano qua e là.
Swamiji spiegò che esistono tre livelli di coscienza sensuale, mentale e
intellettuale, ma al di sopra c'è il livello spirituale.
Il canto del mantra Hare Krishna si trova sul livello spirituale e rappresenta
il metodo migliore per risvegliare la nostra coscienza eterna, che è piena di
felicità.
Invitò tutti a partecipare agli incontri che si sarebbero tenuti al 26 della
Seconda Strada, e concluse il suo breve discorso dicendo: "Grazie ancora. Vi
prego di cantare con noi."
Poi si sedette, prese il tamburo e ricominciò il kirtana.
Probabilmente era un grosso rischio per un uomo di settantun anni battere un
tamburo e cantate così forte, ma lui era lieto di correrlo per Krishna.
Era troppo bello per fermarsi. Era venuto da tanto lontano, dalla lontana
Vrindavana, era sopravvissuto alla società yoga che si opponeva a Krishna e
aveva aspettato tutto l'inverno nell'oscurità.
L'America aveva atteso per centinaia di anni, senza il canto del nome di
Krishna.
Nessun "Hare Krishna" era venuto da Thoreau o da Emerson quando avevano
manifestato il loro apprezzamento sullo studio delle versioni inglesi della
Bhagavad-gita e dei Purana.
E nessun kirtana era nato dal famoso discorso di Vivekananda in nome
dell'induismo al Parlamento delle Religioni a Chicago nel 1893.
Perciò, adesso che era riuscito a far scorrere la Krishna-bhakti come il Gange
scorre verso il mare, non poteva fermarsi. Nel cuore sentiva l'infinita volontà
di Sri Caitanya di liberare le anime cadute.
Sapeva che questo era il desiderio di Sri Caitanya Mahaprabhu e del suo maestro
spirituale, anche se i brahmana di casta in India avrebbero disapprovato il
fatto che frequentasse degli intoccabili come questi drogati americani,
mangiatori di carne e le loro amiche.
Ma come spiegava Swamiji, quello che stava facendo era perfettamente autorizzato
dalle Scritture.
Il Bhagavatam affermava chiaramente che la coscienza di Krishna doveva essere
insegnata a tutti i popoli.
Tutti sono anime spirituali eterne e tutti, senza distinzioni di casta o di
nazionalità, possono essere elevati al più alto livello della vita spirituale
cantando il santo nome.
Non importa di quali attività illecite si stessero rendendo colpevoli, queste
persone erano perfetti candidati per la coscienza di Krishna.
Tompkins Square Park faceva parte del piano di Krishna, faceva parte della
Terra, e queste persone appartenevano alla razza umana. E il canto del mantra
Hare Krishna era il dharma per questa era.
Quando Swamiji ritornò al negozietto trovò una folla di gente venuta dal parco
che aspettava sul marciapiede fuori della sua porta, giovani che aspettavano che
arrivasse ad aprire la porta "Doni impareggiabili", e aspettavano di saperne di
più sulla danza e sui canto, sull'anziano Swami e i suoi discepoli che avevano
creato una scena cosi meravigliosa nel parco.
Riempirono il negozietto. Fuori, sui marciapiede, i timidi e quelli che non
volevano farsi coinvolgere troppo vagavano su e giù vicino alla porta o alla
vetrina, fumando nell'attesa o sbirciando dentro, cercando di vedere i dipinti
che stavano sui muro.
Swamiji entrò e si diresse deciso verso la piattaforma, per sedersi davanti al
più grosso pubblico che avesse mai onorato il suo tempio.
Parlò ancora della coscienza di Krishna e le parole gli venivano naturali, come
i respiri, mentre citava autorevoli versi sanscriti che spiegavano ciò che
avevano sperimentato quel giorno nel parco.
Proprio come avevano cantato tutti insieme oggi, disse, tutti avrebbero dovuto
continuare sempre a cantare.
Era tardi quando alla fine tornò nel suo appartamento. Uno dei ragazzi gli portò
una tazza di latte bollente, e qualcuno commentò che avrebbero dovuto andare a
cantare nel parco ogni settimana.
"Ogni giorno", rispose Swamiji.
Anche se c'erano ancora cinque o sei persone presenti si sdraiò sui materassino.
Continuò a parlare per qualche minuto, poi la sua voce divenne un po' confusa e
la sua predica si frammentò in frasi slegate. Sembrava addormentato. Erano le
dieci.
Uscirono in punta di piedi e chiusero dolcemente la porta.
Hare Krishna stava diventando popolare, kirtana regolari nei parchi e articoli
sui giornali.
Hayagriva la chiamò "l'esplosione Hare Krishna". Gli hippy del Lower East Side
considerarono il canto del mantra Hare Krishna come "uno dei più grossi
avvenimenti" e il fatto che i discepoli dello Swami non prendessero LSD non
sembrava compromettere la loro popolarità.
I devoti erano considerati persone angeliche, che portavano la pace di questo
canto agli altri, e offrivano cibo gratuito e un posto dove stare.
Da loro potevi trovare il cibo vegetariano più interessante e gratis a patto che
ci andassi all'ora giusta. E nel negozietto, sugli, scaffali, avevano dei libri
che venivano dall'India.
Nei club i musicisti della zona cominciarono a suonare le melodie che avevano
sentito dallo Swami quando cantava nel parco e al tempio. Il Lower East Side era
una zona di artisti e musicisti, e ora era anche la zona degli Hare Krishna.
I kirtana della sera erano sempre più grandi. Ogni sera il negozietto si
riempiva di gente, finché non c'era più posto per sedersi.
C'era molto interesse per il canto e per la musica, ma dopo il kirtana, quando
doveva cominciare la lezione, molti si alzavano per andarsene.
Non era insolito che metà della gente se ne andasse prima dell'inizio del
discorso, e talvolta c'erano anche quelli che se ne andavano nel bel mezzo del
discorso.
Una sera, Allen Ginsberg portò all'incontro Ed Sanders e Tuli Kupferberg dei
Fugs.
I Fugs erano un complesso della zona che si era fatta una certa notorietà ed era
specializzato in liriche oscene.
Tra le canzoni più famose dei Fugs c'erano "Dea dei bassifondi del Lower East
Side", "L'ammucchiata" e "Non riesco a 'sballare'".
Ed Sanders aveva una selvaggia capigliatura rossa e una barba color rosso
elettrico, e nel kirtana suonò la chitarra.
I devoti erano felici di avere ospiti cosi prestigiosi. Ma la sera che c'erano i
Fugs, Swamiji scelse di parlare dell'illusione del piacere sessuale.
"Il piacere sessuale ci lega a questo mondo materiale, vita dopo vita", disse, e
come spesso faceva, citò il verso di Yamunacarya: "Da quando sono diventato
cosciente di Krishna, ogni volta che penso a un rapporto sessuale con una donna
volto la faccia per il disgusto, e la mia bocca si storce in una smorfia." I
Fugs non tornarono mai più.
Parlare male del piacere sessuale non era certo una mossa strategica per uno che
voleva farsi dei seguaci tra gli hippy del Lower East Side. Ma Bhaktivedanta
Swami non pensò mai di cambiare il suo messaggio.
In effetti, quando Umapati gli aveva detto che agli Americani non piaceva sentir
dire che il sesso era destinato solo alla procreazione, Bhaktivedanta Swami
aveva risposto: "Non posso cambiare la filosofia per far contenti gli
Americani."
"E il sesso?" chiese una sera il legale dell'ISKCON, Steve Goldsmith, parlando
dal fondo del tempio affollato.
"Il sesso dev'essere limitato ai rapporti con la propria moglie", disse Swamiji,
"e anche in quel caso deve avere delle limitazioni. Il rapporto sessuale deve
servire alla procreazione di figli coscienti di Krishna.
Il mio maestro spirituale diceva spesso che per generare bambini coscienti di
Krishna era pronto ad avere centinaia di rapporti sessuali. Ma è ovvio che in
quest'epoca è estremamente difficile.
Per questo rimase brahmacari."
"Ma il sesso è una forza molto potente", lo sfidò il signor Goldsmith. "Non si
può negare che l’uomo è attratto dalla donna."
"E' per questo motivo che ogni cultura prevede l'istituzione del matrimonio",
replicò Prabhupada.
"Puoi sposarti e vivere tranquillamente con una donna, ma la moglie non
dev'essere usata come una macchina per la gratificazione per i dei sensi.
I rapporti sessuali devono essere limitati a una volta al mese, e solo per avere
dei figli."
Hayagriva, che era seduto alla sinistra di Swamiji, accanto al grosso gong,
s'intromise improvvisamente.
"Solo una volta al mese?"
E con una sfumatura di sottile umorismo aggiunse a voce alta: "Meglio lasciar
perdere del tutto!"
"Sì, proprio così sei un bravo ragazzo." Swamiji rise, e altri risero con lui.
"E' meglio non pensarci più. Meglio cantare Hare Krishna." E sollevò le mani
come se stesse cantando sul japa.
“In questo modo ci salveremo da un mucchio di guai. Il sesso è come un prurito,
ecco tutto. E poiché quando ci grattiamo il prurito peggiora, dovremmo tollerare
il prurito e chiedere aiuto a Krishna. Non è facile.
Il sesso è il piacere più elevato nel mondo materiale ed è anche il legame più
forte."
Ma Steve Goldsmith scuoteva la testa.
Swamiji lo guardò sorridente: "Hai ancora dei problemi?"
“E solo che... beh, è stato provato che è pericoloso reprimere gli impulsi
sessuali. C'è una teoria secondo la quale le guerre sono dovute... "
"La gente mangia la carne", lo interruppe Prabhupada.
"E finché la gente mangia carne, ci saranno sempre guerre. E se uno mangia
carne, sicuramente dovrà anche avere rapporti sessuali illeciti."
Steve Goldsmith era un amico influente e un sostenitore dell'ISKCON. Ma
Prabhupada non avrebbe cambiato la filosofia della coscienza di Krishna "per far
contenti gli Americani".
Erano le undici di sera, e solo una luce era accesa nell’appartamento di
Swamiji, nel cucinino.
Swamiji era ancora in piedi, per insegnare a cucinare a Kirtanananda e a
Brahmananda, perché il giorno dopo (domenica) avrebbero fatto una festa
pubblica.
Kirtanananda aveva suggerito di chiamarla la "festa dell'amore", e Swamiji aveva
adottato il nome, anche se a qualcuno suonò strano sentirgli dire la prima volta
"festa dell'amore".
I devoti avevano attaccato manifeste in tutta la zona e un cartello da mettere
nella vetrina del negozietto.
Swamiji disse che avrebbe cucinato per almeno cinquanta persone.
Disse che le feste dell'amore, avrebbero dovuto diventare una parte importante
dell'ISKCON.
Come aveva spiegato molte volte, il cibo offerto a Krishna diventa spirituale.
Chiunque mangi il prasada ne ottiene un grande beneficio spirituale.
Prasada significava “misericordia".
Swamiji controllò ognuna delle dieci o dodici preparazioni, specialmente nella
fase finale, poi i suoi discepoli portarono le pentole piene nella stanza
anteriore e le misero una per una davanti al quadro di Sri Caitanya.
C'era halava, dal, due sabji, un riso, puri, samosa, riso dolce, chutney di mele
e gulabjamun, "le bombe ISKCON”.
Swamiji aveva passato molto tempo a friggere lentamente i gulabjamun a fuoco
basso, finché erano diventati grossi, rotondi e bruni.
Poi, uno per uno, li aveva tolti dal ghi con una schiumarola per metterli a
bagno in uno sciroppo dolce.
Aveva visto che queste palle di latte, fritte nel ghi, erano la specialità più
apprezzata dai devoti.
Le chiamò "le bombe ISKCON" perché erano vere armi nella sua battaglia contro
maya. Disse perfino che nella sua stanza anteriore si poteva tenere un vaso
pieno di "bombe ISKCON" galleggianti nello sciroppo, e i suoi discepoli
avrebbero potuto prenderne senza chiedere il permesso e senza attenersi a orari
precisi.
Potevano prenderne quante ne volevano.
Le prime "feste dell'amore" non videro molti ospiti, ma i devoti erano così
entusiasti della festa di prasada che non si mostrarono molto delusi per la
scarsità di ospiti.
Erano pronti a mangiare tutto.
Satsvarupa: C'era qualcosa chiamato "brahmana spaghetti ", cioè dei vermicelli
di riso cotti nel ghi e immersi in uno sciroppo di zucchero. e immersi in uno
sciroppo di zucchero.
Poi c'era l'alava, riso puspanna con palline di formaggio fritto, samosa,
polpettine di mung dal spezziate e fritte, puri, gulabjamun. E tutto era
succulento questa era la parola che usava Hayagriva. "Sì" diceva nel suo modo
buffo, "tutto era molto succulento.". E tutto era succulento questa era la
parola che usava Hayagriva. "Sì" diceva nel suo modo buffo, "tutto era molto
succulento."
Mangiare il prasada della festa era un'esperienza intensa. Dovevamo controllare
i sensi per tutta la settimana e seguire rigide regole per controllare la
lingua.
La festa era una specie di ricompensa.
Swamiji e Krishna ci davano un assaggio di estasi spirituale, anche se eravamo
ancora dei principianti, ancora nel mondo materiale.
Prima di cominciare il mio piatto pieno, pregavo: "Per favore, Krishna fammi
rimanere nella coscienza di Krishna, perché è cosi bella e io sono cosi caduto.
Fa' che possa sempre servire Swamiji, e fa' che ora possa gustare questa festa
con una gioia trascendentale."
E cominciavo a mangiare, sperimentando un gusto dopo l'altro il buon riso, le
verdure preferite, il pane, tenendo per ultimi i gulabjamun, e pensavo: "Posso
prenderne un'altra volta, e se voglio, un'altra ancora.", e pensavo: "Posso
prenderne un'altra volta, e se voglio, un'altra ancora."
Tenevo d'occhio le grosse pentole, sicuro che ce ne sarebbe stato abbastanza per
tutti. Era un momento speciale. Tutti lo gustavano con grande gioia e con un
piacere profondo.
Mangiare era veramente importante.
Gradualmente gli ospiti aumentarono.
Le feste erano gratuite, e si diceva che il cibo fosse delizioso.
Venivano quasi tutti gli hippy della zona, e occasionalmente anche ricercatori
di un ceto sociale più elevato che abitavano a New York, o anche i genitori di
qualche devoto.
Quando il minuscolo tempio era pieno, gli ospiti andavano a sedersi nel cortile.
Si portavano i piatti di plastica colmi di prasada fino al piccolo giardino del
cortile, e andavano a sedersi sotto le scale di sicurezza, o al tavolo da
picnic, o in qualsiasi altro posto. E dopo aver finito il piatto tornavano al
negozietto per prendere altro prasada.
I devoti erano li ad aspettare, dietro le pentole, e gli ospiti si facevano
avanti per il bis.
Gli altri inquilini non erano molto felici di vedere il cortile pieno di ospiti
nei giorni di festa, e i devoti cercavano di rappacificarli con piatti di
prasada.
Swamiji non scendeva nel tempio, ma prendeva un piatto di prasada nella sua
stanza e ascoltava con piacere i successi del nuovo programma.
Una volta i devoti stavano mangiando con tanto ardore che sembrava che avrebbero
divorato tutto quello che c'era prima che tutti gli ospiti fossero stati
serviti, e Kirtanananda dovette rimproverarli per, il loro atteggiamento
egoista.
Gradualmente stavano cominciando a capire che la festa della domenica non era
destinata solo al loro piacere e divertimento, ma ad avvicinare la gente alla
coscienza di Krishna.
Bhaktivedanta Swami aveva cominciato la pubblicazione della rivista Back to
Godhead quand'era ancora in India.
Aveva scritto articoli fin dal 1930 ma fu nel 1944 a Calcutta che aveva iniziato
da solo la pubblicazione, seguendo l'ordine del suo maestro spirituale che gli
aveva raccomandato di predicare la coscienza di Krishna in lingua inglese.
Affrontando grandi difficoltà aveva messo da parte, con gli introiti della sua
attività farmaceutica, le quattrocento rupie mensili necessarie alla stampa. E
da solo aveva scritto ogni numero, aveva corretto le bozze, pubblicato,
finanziato e distribuito.
In quegli anni, Back to Godhead era stato l'emblema stesso dell'opera letteraria
e della missione di predica di Bhaktivedanta Swami. Aveva desiderato di
distribuire la sua rivista in tutto il mondo e aveva fatto piani per diffondere
in ogni luogo il messaggio di Sri Caitanya.
Aveva compilato una lista dei più importanti paesi del mondo e il numero di
copie di Back to Godhead che voleva spedire per ogni Paese.
Cercò di raccogliere donazioni per finanziare il progetto, ma gli aiuti erano
scarsi. Poi, nel 1959, aveva rivolto le sue energie alla stesura e alla
pubblicazione dello Srimad Bhagavatam.
Ora, però, voleva far risorgere Back to Godhead, e questa volta non sarebbe
stato solo. Questa volta ne avrebbe affidato la responsabilità ai suoi
discepoli.
Uno dei discepoli di Swamiji, Gargamuni, seppe che un club di campagna, nel
Queens, voleva vendere il suo piccolo ciclostile A. B. Dick. Swamiji era
interessato, e con un furgone preso a prestito andò con Gargamuni e Kirtanananda
al Queens per vedere la macchina.
Era vecchia, ma in buone condizioni. Il direttore del club voleva 250 dollari.
Swamiji esaminò attentamente la macchina e parlò con il proprietario,
spiegandogli la sua missione spirituale. Il direttore disse che aveva un altro
ciclostile e aggiunse che in realtà nessuno dei due gli era necessario.
Swamiji disse che avrebbe pagato 250 dollari per tutt'e due le macchine; il club
non le usava comunque. Inoltre, il direttore avrebbe dovuto aiutarlo, perché
Swamiji aveva un importante messaggio da stampare per il bene dell'umanità
intera.
L'uomo acconsentì. Swamiji disse a Gargamuni e a Kirtanananda di caricare i due
ciclostili sul furgone. Ora l'ISKCON aveva la sua tipografia.
Bhaktivedanta Swami affidò la pubblicazione di Back to Godhead ad Hayagriva e
Raya Rama.
Per tanti anni aveva considerato questa rivista come il suo servizio personale
al suo maestro spirituale, ma ora voleva lasciare la rivista Back to Godhead a
giovani come Hayagriva, il professore d'inglese, e Raya Rama, lo scrittore
professionista, come servizio al loro maestro spirituale.
In breve tempo Hayagriva e Raya Rama compilarono il primo numero. Erano pronti a
stampare.
Era una serata tranquille, niente kirtana pubblici o lezione e Swamiji era nella
sua stanza a lavorare sulla sua traduzione dello Srimad Bhagavatam. Di sotto, la
stampa del primo numero era cominciata già da diverse ore.
Raya Rama aveva battuto a macchina la matrice, e durante la stampa era rimasto
sopra la macchina, un pò nervoso, esaminando la qualità di ogni pagina,
grattandosi la barba e mormorando: "Hmmmm."
Adesso bisognava incollare e rilegare ogni rivista. La matrice era durata per
cento copie, e ora le cento copie delle ventotto pagine, più le due pagine di
copertina, erano allineate su due delle tavole di legno non verniciato che
Raphael aveva costruito quell'estate.
Alcuni devoti si misero a rilegare le riviste con punti metallici, in catena di
montaggio, passando lungo la fila di pagine stese e prendendole una dopo l'altra
finché arrivavano in fondo alla fila, dove consegnavano la pila di fogli, che
formavano un numero della rivista, a Gargamuni, che era lì in piedi e si
scostava i lunghi capelli dagli occhi, rilegando ogni rivista con la cucitrice e
i punti metallici che Brahmananda aveva portato dal suo ufficio.
Persino Hayagriva, che di solito non si mostrava molto entusiasta per i lavori
manuali, era lì a fare su e giù lungo la fila, mettendo insieme le riviste.
Improvvisamente la porta si socchiuse, e con grande sorpresa videro Swamiji che
li stava guardando. Poi spalancò la porta ed entrò nella stanza.
Non era mai successo prima che scendesse così di sera. Provarono tutti un
intenso sentimento di emozione e di amore per lui, e caddero in ginocchio,
piegando la testa a terra.
"No, no", disse lui, alzando la mano per fermarli mentre alcuni stavano ancora
chinandosi a terra e altri si stavano già rialzando in piedi. "Continuate quello
che state facendo."
Quando si alzarono e videro che rimaneva lì con loro, rimasero incerti su cosa
fare. Ma era evidente che era sceso a vederli mentre pubblicavano la sua
rivista, perciò continuarono a lavorare con efficienza e in silenzio.
Prabhupada si avvicina alla fila di pagine, la sua mano si stese con grazia
dalle pieghe del suo cadar per toccare le pagine ammucchiate, e poi una rivista
finita. "Edizioni ISKCON", disse.
Jagannatha aveva disegnato la copertina, servendosi di uno schizzo a china di
Radha e Krishna, molto simile al dipinto che era appeso nel tempio.
Era un semplice schizzo, incorniciato da un motivo di cerchi concentrici. La
prima pagina si apriva con lo stesso motto che Prabhupada aveva usato per anni
nella sua rivista Back to Godhead: "Dio è luce, e l'ignoranza è oscurità Dove
c'è Dio non può esserci ignoranza."
La prima e più importante istruzione di Prabhupada ai suoi editori era stata
quella di produrre la rivista regolarmente, ogni mese.
Anche se non sapevano come avrebbero venduto le copie, o anche se riuscivano a
mettere insieme solo due pagine, dovevano continuare a mantenere lo standard.
Chiamò Hayagriva nella sua stanza e gli offrì i tre volumi del suo Srimad
Bhagavatam. Sulla prima pagina di ogni volume aveva scritto: "A Sriman Hayagriva
das brahmacari, con le mie benedizioni. A. C. Bhaktivedanta Swami."
Hayagriva era commosso e disse che non se li meritava. "Va bene", disse
Prabhupada. "Ora occupati di questa rivista. Lavora sinceramente e falla
diventare grande come la rivista Time."
Prabhupada voleva che tutti i suoi discepoli partecipassero. "Non siate ottusi",
diceva. "Scrivete qualcosa."
Voleva affidare il Back to Godhead ai suoi discepoli perché sviluppassero la
loro predica.
Quella stessa sera Brahmananda e Gargamuni presero le prime copie e partirono in
bicicletta per andare a distribuirle in ogni negozio del Lower East Side, giù
alla Quattordicesima Strada e fino al West Village, finché ebbero distribuito
tutte le cento copie.
Questa era un'espansione della predica. Ora tutti i suoi studenti potevano
partecipare al lavoro, battendo a macchina, scrivendo, correggendo le bozze,
mettendo insieme i fogli e distribuendo le riviste. Era la sua predica, certo,
ma adesso non era più solo.
Poco dopo il loro matrimonio, Mukunda e Janaki erano partiti per la Costa
Occidentale.
Mukunda aveva detto a Swamiji che voleva andare in India a studiare musica
indiana, ma dopo qualche settimana trascorsa nel sud dell'Oregon era finito a
San Francisco. Ora aveva un'idea migliore.
Voleva prendere in affitto un posto la e invitare Swamiji a cominciare il
movimento Hare Krishna nel distretto di HaightAshbury, proprio come aveva fatto
nel Lower East Side.
Aveva detto che lì c'erano ottime possibilità per la coscienza di Krishna.
Qualche volta, durante gli incontri serali nella sua stanza, Swamiji aveva
chiesto se Mukunda era pronto Sulla Costa Occidentale.
Per vari mesi l'idea che Swamiji andasse sulla Costa Occidentale era stata una
delle molte possibilità. Ma nella prima settimana del gennaio 1967 arrivò una
lettera di Mukunda: aveva preso in affitto un negozietto nel cuore di
Haight-Ashbury, a Frederick Street. "Siamo tutti impegnati a trasformarlo in un
tempio", scriveva. E Swamiji annunciò: "Partirò immediatamente."
Mukunda parlava di un "raduno delle tribù" a San Francisco, nella
Haight-Ashbury. Migliaia di hippy stavano migrando da tutto il Paese in quella
stessa zona dove Mukunda aveva preso il negozietto.
Questo manifesto pubblicizza la partecipazione di Srila Prabhupada al Mantra
Rock Dance (San Francisco 1967).
Era una fioritura di giovani molto più grandiose di quella che si stava
verificando a New York City. Con l'idea di raccogliere fondi per il nuovo
tempio, Mukunda stava organizzando un "mantra Rock Dance", a cui avrebbero
partecipato molti gruppi famosi.
Swami Bhaktivedanta e il mantra Hare Krishna sarebbero stati il centro
dell'attrazione.
Nella sua lettera Mukunda aveva infilato un biglietto d'aereo, ma alcuni seguaci
di Swamiji si rifiutarono di pensare che Swarniji l'avrebbe usato.
Quelli che sapevano di non poter lasciare New York cominciarono a criticare
l'idea che Swamiji andasse a San Francisco. Secondo loro, quelli della Costa
Occidentale non potevano prendersi veramente cura di Swamiji.
Swamiji che andava ad esibirsi con dei musicisti rock? Quella gente non sembrava
abbastanza rispettosa. E poi, la non c'era un tempio adatto. Non c'era la
stampatrice e nemmeno la rivista Back to Godhead.
Perché Swamiji avrebbe dovuto andarsene da New York per partecipare a una
manifestazione come quella con estranei, in California?
Come poteva lasciarli soli a New York? Come avrebbero potuto continuare la loro
vita spirituale senza di lui?
Timidamente, uno o due dissenzienti espressero indirettamente alcuni di questi
sentimenti a Swamiji, come se volessero rimproverarlo per la sua idea di
lasciarli, e perfino suggerendo che se lui partiva, niente sarebbe andato bene,
né a San Francisco né a New York. Ma lo trovarono fiducioso e determinato.
Non apparteneva a New York; lui apparteneva a Krishna. E doveva andare dovunque
Krishna volesse mandarlo a predicare. Era completamente distaccato e pronto a
viaggiare per espandere il canto del mantra Hare Krishna.
Brahmananda: Ma noi non riuscivamo a capacitarci che lui stava per andarsene.
Non avevo mai pensato che la coscienza di Krishna potesse andare più in là del
Lower East Side, e tanto meno fuori di New York. Pensavo che fosse tutto qui, e
che dovesse rimanere qui per sempre.
Verso la fine della seconda settimana di gennaio venne fatta la prenotazione
definitiva per l'aereo, e i devoti cominciarono a impacchettare i manoscritti di
Swamiji per metterli nei bauli.
Rancora, un nuovo devoto reclutato a Tompkins Square Park, aveva collettato
abbastanza denaro per un biglietto d'aereo, e i devoti decisero che sarebbe
partito con Swamiji per fargli da assistente personale.
Swamiji spiegò che sarebbe rimasto lontano solo per qualche settimana, e che
voleva che tutti i programmi continuassero regolarmente anche in sua assenza.
Rimase nella stanza ad aspettare che i ragazzi gli trovassero una macchina per
andare all'aeroporto. La giornata era grigia e fredda e il vapore fischiava nei
termosifoni.
Avrebbe portato con sé solo una valigia, per lo più vestiti e qualche libro.
Aprì il cassetto per controllare che i suoi manoscritti fossero in ordine.
Kirtanananda si sarebbe preso cura delle cose nel suo appartamento.
Si sedette al tavolino dove, per più di sei mesi, si era seduto tante volte,
lavorando per ore alla macchina da scrivere per preparare la sua Bhagavad-gita e
lo Srimad Bhagavatam, e dove era stato seduto a parlare con tanti ospiti e
discepoli. Ma oggi non avrebbe parlato con amici o battuto a macchina un
manoscritto. Stava solo aspettando per qualche minuto prima che l'ora della
partenza arrivasse.
Questo era il suo secondo inverno a New York. Aveva lanciato il Movimento per la
Coscienza di Krishna. Alcuni giovani ragazzi sinceri si erano fatti avanti per
aiutarlo. Erano famosi nel Lower East Side, molti articoli erano usciti sui
giornali. E questo non era che l'inizio.
Era per questo che aveva lasciato Vrindavana.
Dapprima non era stato ben sicuro di poter rimanere in America per più di due
mesi. A Butler aveva presentato i suoi libri. Ma a New York aveva potuto vedere
che il dott. Mishra si era dato da fare e che i mayavadi avevano un grosso
palazzo. Facevano molti soldi, e non stavano nemmeno comunicando il vero
messaggio della Bhagavad-gita. Ma in America la gente stava cercando.
Questi mesi in America erano stati difficili. I suoi confratelli non avevano
dimostrato alcun interesse nell'aiutarlo, benché ciò che lui stava facendo fosse
proprio quello che il loro guru Maharaja, Srila Bhaktisiddhanta Sarasvati
Thakura e Sri Caitanya avevano desiderato.
Poiché Sri Caitanya lo voleva, le benedizioni sarebbero arrivate e ce l'avrebbe
fatta.
Il negozio al 26 della Seconda Avenue era un bel posto. Era qui che aveva
cominciato. I ragazzi l'avrebbero mandato avanti. Alcuni contribuivano con il
loro stipendio. Era un buon inizio.
Bhaktivedanta Swami guardò l'orologio. Indossò il suo cappotto di tweed, e si
mise il cappello e le scarpe, infilò la destra nel sacchettino del japa e
continuò a cantare.
Uscì dall'appartamento, scese le scale, attraversò il cortile gelato e immobile
con i suoi alberi spogli e secchi che non avevano più nemmeno una foglia. E
lasciò dietro di sé il negozietto.
Se ne andò, mentre Brahmananda, Rupanuga e Satsvarupa erano in ufficio, al
lavoro. Non ci fu nemmeno una scena d'addio o qualche parola di commiato.